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Nella Valle dell'Omo - Parte VI

Diario di un viaggio in un museo a cielo aperto

 

...segue 

 

 15° giorno 

Oggi visitiamo i bei villaggi-città e le terre ben coltivate dei Konso, forse il popolo dai costumi meno spettacolari di questa terra, ma non per questo i meno interessanti. Uno dei villaggi-città più famosi è quello di Gesergio, per via di uno spettacolare canyon che lo fiancheggia, costellato di pinnacoli sabbiosi modellati dagli agenti atmosferici, che i locali chiamano pomposamente New York, richiamando queste formazioni alla loro mente i grattacieli della città americana.

 

Divisi in 9 clan ognuno col proprio capo, che poi eleggono un Re, i Konso sono conosciuti come abilissimi coltivatori e lavoratori instancabili, al punto che il governo etiope favorisce il loro spostamento in aree poco sfruttate dal punto di vista agricolo, generando più di una gelosia negli altri popoli. Caratteristico del loro metodo di coltivazione di un territorio non pianeggiante è il terrazzamento, non praticato da altri popoli in Etiopia. Anche i villaggi che abitano hanno poco in comune con quelli dei popoli vicini: abitano in capanne costruite le une vicino alle altre in una trentina di villaggi che si inerpicano sulle colline e sono circondati da muri a secco, alti fino a 4 metri, che gli hanno meritato il soprannome di "città di pietra". Questi villaggi-città sono suddivisi da un numero variabile di mura concentriche, fino ad un massimo di 8, di altezza decrescente man mano che ci si allontana dal centro del villaggio, e hanno un limitato numero di entrate, per motivi difensivi. In ogni città ci sono uno o più mora, edifici pubblici con una piattaforma rialzata sotto ad un grande tetto spiovente dove la gente prende l'ombra, socializza ma è anche luogo di riunioni cittadine per le decisioni più importanti e dove viene data ospitalità a chi provenie da fuori. In tempi di guerra tutti i ragazzi maggiori di 12 anni erano tenuti a dormire qui, in modo da essere pronti nel minor breve tempo possibile ad entrare in azione. Ogni villaggio-città ha una o più piazze principali nella quale viene eretto un olahita o Palo delle Generazioni, una specie di totem al quale ogni 18 anni viene aggiunto un tronco. Quando un olahita è costituito da troppi tronchi, mediamente una decina/dozzina, si ricomincia costruendone un altro in un altro punto del villaggio-città: grazie a questi è possibile risalire all'età dei singoli insediamenti, con i più vecchi che hanno circa 500 anni. In queste piazze c'è sempre una pietra sferica che agli occhi degli ignari visitatori spesso pare un pallone da calcio abbandonato. In realtà è un test: chi non riesce a sollevarla sopra la propria testa viene ritenuto non ancora pronto per sposarsi. Ho provato a sollevarla e posso testimoniare che, non essendovi riuscito, il test funziona alla perfezione...

 

Anche se non sono vestito molto elegantemente, per la prima volta in vita mia vengo ricevuto a corte. Il Re dei Konso, che per rimanere puro deve rispettare un rigido protocollo che prevede che non possa uscire dal suo compound, che mangi mangiare da solo e che possa avere solo una moglie, ci accoglie sotto il suo mora privato e per una buona oretta si sottopone pazientemente alle nostre domande. In un buon inglese ci spiega il suo ruolo, in pratica una specie di saggio al quale ci si rivolge per dirimere le questioni che nascono sia tra cittadini che tra i diversi villaggi. La polizia vera e propria molto spesso si rivolge al Re per ricevere aiuto e consulenza e i sistemi di repressione che il monarca può mettere in atto, benché più che altro di ordine sociale, sono più efficaci di quanto si possa credere. Una delle punizioni più dure è il ripudio della comunità: non potendo mettere nessuno in galera (essendo questa una prerogativa del governo centrale) il sovrano può dare ordine ai suoi sudditi di escludere dalla vita sociale un individuo al quale non rimane che espatriare. Ma poiché chiunque in Etiopia sa che un Konso di norma si allontana dalla sua terra solo in questi casi, alla fine al reprobo conviene confessare anche nella nuova località di cosa è stato incolpato (anche perché risalire ai fatti non è difficile visto che i Konso non nascondono questi ripudi, anzi) e chiedere di lasciargli la possibilità di ricostruirsi una vita.

 

Il vivace mercato di Konso - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Del Re ho anche modo di visitare il cimitero di famiglia. I Konso sono in pratica gli unici ad avere una significativatradizione scultorea figurativa, limitandosi gli altri popoli del bacino del fiume Omo a produrre poggiatesta, monili e decorazioni corporee di vario genere. Produc(eva)no i waka, statue a figura intera, a volte anche a dimensioni naturali benché di norma più piccole, posizionate sulla tomba di monarchi o "eroi", qualifica quest'ultima che si poteva ottenere per meriti militari o per aver ucciso un animale pericoloso. Vi sono anche statue femminili. Nel dicembre scorso (2009), grazie all'interessamento di un ambasciatore francese, è stato inaugurato nel capoluogo un museo dedicato a queste sculture, dopo che al sopracitato transalpino erano state mostrate le oltre 200 statue che la polizia locale aveva recuperato dal 1996 in poi dai trafugatori che cercavano di piazzarle sul mercato del collezionismo occidentale. Poiché secondo la tradizione Konso una volta che la statua veniva rimossa (o marciva) non si poteva sostituirla (perché "si può morire una volta sola"), le statue erano da allora rimaste accatastate in un magazzino della polizia di Karat Konso, in attesa di trovare una collocazione. S'è quindi costruito un museo nello stile dei pietrosi villaggi-città Konso dove alloggiarle, grazie anche a fondi messi a disposizione dal citato ambasciatore. Il re dei Konso si è detto contento di questa iniziativa, utile a preservare una tradizione che, causa i furti e la mancanza di occasioni (guerre o animali feroci da uccidere) stava rischiando di scomparire.

 

Nel pomeriggio prendiamo la pista che porta a sud-ovest, in direzione di Moyale, a pochi chilometri dal confine col Kenya, in pratica uscendo dalla zona più battuta dal "turismo tribale" che da Konso di norma risale verso la capitale. Dopo poco entriamo nella terra dei Borana, popolo di pastori dai tratti somatici che si differenziano da quelli della gente vista finora, coi volti allungati che più che gli omotici ricordano i somali. Si vedono anche gruppi di dromedari, animali adatti a questo territorio che, man mano che scendiamo, è sempre più aspro. In serata giungiamo a Yabello (o Yabelo) e pernottiamo in un albergo, anche questo di recentissima costruzione, ennesima opera di un'impresa edile cinese. Poco prima ci eravamo fermati in un piccolo villaggio, chiedendo il permesso di scattare qualche foto, ma la cifra chiesta era più del doppio di quanto di norma viene chiesto. Abbiamo rimandato al giorno seguente, supponendo che questi, essendo molto vicini alla città, fossero un po' "viziati".

 

16° giorno

Yabello è una città di confine, a quasi 200 km da Moyale che è sulla frontiera, che vive sul via vai di genti e merci che questa sua condizione di "porta per il Kenya" gli dà: molti camion e camioncini in giro fino dall'alba, orario in cui, in attesa che gli altri si sveglino, vado a fare un giretto in solitaria. In realtà non siamo proprio a Yabello città, ma in un abitato sviluppatosi attorno ad un incrocio molto vivace, da dove si preparano alla partenza molti mezzi.

 

Anche noi andiamo verso il Kenya ma ci fermiamo dopo un centinaio di chilometri per visitare lo spettacolare lago di Chew Bet, a volte chiamato El Sod che invece è il villaggio che gli cresce a fianco, che giace sul fondo di un verde cratere di origine vulcanica. Visto da quassù il lago pare una nera chiazza di petrolio. Scesi a livello dell'acqua vediamo diversi locali intenti nell'attività principale: la raccolta del sale. Il lago, di larghezza variabile in base alla stagione, non è particolarmente profondo: i raccoglitori, con le narici tappate artigianalmente, servendosi di lunghi bastoni smuovono il fondale e poi si tuffano per raccogliere il fango che portano a riva in grosse bracciate. Un lavoro massacrante, sia per la fatica fisica richiesta che per la continua esposizione al sale che lacera gli abiti ma soprattutto la pelle. Il sale estratto è di 3 tipi diversi, quello più fine viene usato, ci dicono, a scopi afrodisiaci, quello medio per condire i cibi, quello più grossolano per il bestiame. Risaliamo lentamente, affiancando gli asini che vengono utilizzati per portare il prezioso minerale in cima, in una salita impegnativa ma non così proibitiva come pareva a leggere la guida.

 

Un "pozzo che canta" - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Le altre attrazioni principali della terra dei Borana sono i cosiddetti "pozzi che cantano", pozzi scavati in profondità per ottenere quell'acqua che, in stagioni più secche, è l'unico modo per far abbeverare il bestiame. Contrariamente a quello che pensavo, per andare al pozzo ci inoltriamo subito per una pista secondaria, preventivamente dotatici di guida locale. Percorriamo una decina di chilometri di una pista davvero poco frequentata durante la quale il nostro pilota riguadagna dei punti quando avvista un mamba verde e si ferma per lasciarcelo ammirare. Pericolosissimo (i mamba sono gli unici serpenti che attaccano anche se non disturbati perché fortemente territoriali), mi limito a guardarlo da distanza di sicurezza ma non riesco a catturarlo con la macchina fotografica. Giungiamo al pozzo e devo ancora una volta complimentarmi con la guida: questo pozzo è davvero notevole, decisamente più grande di quelli che avevo visto in foto e che sono quelli che la maggior parte dei turisti visitano nei dintorni di Dublock, una trentina di chilometri più a nord. Molto profondo, oltre una quarantina di metri, ha una maestosa discesa scavata nel terreno per consentire agli animali di arrivare il più vicino possibile all'acqua. Vengono definiti "pozzi cantanti" perché, per far salire l'acqua dal livello più basso a quello più alto, vengono formate delle catene umane dove i pastori svuotano il secchio pieno nella vasca superiore e passano al proprio vicino quello vuoto mentre ne pigliano un altro pieno. Il tutto cantando delle canzoni ritmate per sincronizzarsi. Purtroppo siamo nella stagione delle "piccole piogge" e non c'è un reale bisogno di questa faticosa attività, ma la guida, compresi nel prezzo della visita, porta con sè alcuni ragazzi che inscenano l'operazione.

 

Rientriamo verso Yabello dove c'è tempo per fare una visita al mercato locale, cosa che apprezza anche la guida visto che la città, per via della sua vicinanza col Kenya, è luogo dove si possono trovare mercanzie, in particolare abiti, che costano molto meno che nel resto del paese. Gironzoliamo senza fretta alcuna, lasciandoci coinvolgere da quello in cui imbattiamo: c'è un "edificio" in costruzione e al proprietario - un negoziante che ne controlla l'esecuzione - chiediamo informazioni sulle tecniche di costruzione e il suo business; ci imbattiamo in un poveraccio rantolante a terra, assistito da quella che pare essere la moglie ma non ci è chiaro se è ubriaco o se è stato pestato; vicino ad un piccolo bar c'è un tavolo da ping-pong e per un po' regredisco ad età adolescenziale sfidando la guida ai 21. Perdo ai vantaggi, nonostante sia stato in testa fin dall'inizio.

 

continua...

 

Nella Valle dell'Omo - I

Nella Valle dell'Omo - II

Nella Valle dell'Omo - III

Nella Valle dell'Omo - IV

Nella Valle dell'Omo - V

 

ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi

Roberto

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