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Nella Valle dell'Omo, Etiopia - Parte II

Diario di un viaggio in un museo a cielo aperto

 

...segue 

 

4° giorno - Problemi logistici 

Visitiamo la piantagione di caffè di Bebeka. Le piante che danno il prezioso chicco sono piccole ma gradiscono l'ombra e quindi sono circondate da verdi giganti, il paesaggio è umido ma ugualmente gradevole. Ci dirigiamo a sud e comincia la parte più interessante del viaggio. D'ora in avanti, e fino all'attraversamento del fiume Omo, si potrà solo campeggiare. Entriamo in territori sempre meno frequentati, siamo a meno di 10 km dal confine col Sudan e, anche se non li distinguiamo, in questi villaggi ci sono diversi profughi provenienti da quella sfortunata terra. Passiamo dal villaggio di Kuja, a maggioranza Menit, e da Dima, abitato dagli Anuak. Questi ultimi mostrano già diverse di quelle caratteristiche tipiche dei popoli più arretrati e interessanti che abitano a queste latitudini, primi fra tutti i Surma (1). Vestiti con una semplice coperta, hanno i lobi incisi per portare voluminosi orecchini, indossano stretti bracciali e sfoggiano vistose scarificazioni.

 

Anche il paesaggio pian piano si modifica, diventando meno lussureggiante. Ci sono strani alberi, chiamati "alberi delle salsicce" con frutti dalla forma fallica che, manco a dirlo, hanno portato alla nascita di leggende sulle sue proprietà afrodisiache. Non piove ma la pista risente dell'acqua caduta nei giorni precedenti (ottobre è stagione delle "piccole pioggie") e alcuni tratti sono messi davvero male. Si procede con prudenza.

 

In territorio Surma, per fortuna, le piste sono in condizioni migliori. Mentre ci dirigiamo verso il primo villaggio, Tulgit, spuntano i primi Suri, due stangoni che sfiorano i due metri, nudi come mamma li ha fatti. Sanno che i turisti possono venire solo dal nord, su quella strada, e cercano, come tutti, di raggranellare due spicci facendosi fotografare. Ma andiamo oltre e ci fermiamo poco dopo, dove c'è un gruppetto di Suri sotto ad un albero. Scendiamo e, dal nulla, ne compare un'altra decina. Niente paura, sono amichevoli, nonostante un paio di loro abbia un kalashnikov a tracolla. Questo però mi fa capire quanto ormai siamo distanti dal cosiddetto "mondo civile" e che certe leggi qui valgono meno del due di bastoni quando briscola è denari.

 

Proseguiamo e giungiamo al villaggio, dove l'unico a parlare amarico è il maestro della scuola elementare, un Dizi. Ci accompagna nella visita del villaggio, al centro del quale c'è un campo da calcio dalle porte scalcagnate. Le donne hanno il famoso piattello labiale che è l'unico metro della loro bellezza: più è largo e più vacche lo sposo deve pagare, di norma alcune decine, fino ad un massimo di 50 o poco più per le ragazze dai piattelli più grandi. Non esistono altri criteri e men che meno conta il parere della ragazza (2). Se non altro questo sistema porta a considerare, a differenza ad esempio di quanto succede in Cina, la nascita di una femmina come una fortuna e non come una tragedia. Per un Suri l'ideale è avere una decina di figli, di cui un paio di maschi per badare il bestiame e il resto femmine per incassare la dote al loro matrimonio, perché la ricchezza viene misurata in capi di bestiame. Di norma il piattello labiale viene inserito circa 6 mesi prima del matrimonio, con dimensioni che crescono progressivamente. I piattelli più grandi arrivano ad avere anche oltre 30 cm di diametro e per poterli portare vengono asportati gli incisivi inferiori (usando dei chiodi e senza anestesia), cosa che peraltro fanno spesso anche gli uomini anche se non portano mai piattelli. Quando diventano vecchie, smettono di portare il piattello e le labbra spenzolanti vengono amputate.

 

Donna Surma con piattello labiale

Donna Surma con piattello labiale - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

A quanto pare non è un'usanza il cui inizio si perda nella notte dei tempi, anzi sembra quasi aver acquisito maggiore importanza di recente: vi sono resoconti di esploratori dell'800 (questa zona è stata in larga parte scoperta dall'italiano Vittorio Bottego che nella seconda metà di quel secolo cercava la foce del fiume Omo) che raccontano di piattelli labiali di dimensioni decisamente inferiori a quelli attuali. C'è un tramonto da urlo e volendo fotografarlo faccio fermare l'auto. Scendo, scatto e torno di corsa all'auto, perché abbiamo fretta di arrivare a Maji prima che faccia buio. Non vedo un piccolo arbusto, alto neanche 30 cm, ci inciampo ma riesco a non cadere. Però la botta l'ho sentita, per tutta la serata sento dolore alla caviglia.

 

Campeggiamo in un prato, non molto in piano in verità, all'interno del cortile del locale ufficio governativo. Andiamo a fare un giro nel villaggio, i locali sono cordiali, alcuni anche visibilmente brilli. Ci accolgono in una casa (non proprio come le nostre ma nemmeno una capanna col tetto di paglia, per intenderci) e i padroni sono Amhara, la stessa etnia della nostra guida e quindi si crea subito feeling. Restiamo un'oretta, forse anche di più, a chiacchierare (anche se io, non capendo l'amarico, più che sorridere non posso fare) e a giocare coi bambini che non sono abituati ad avere degli adulti che si prestano agli scherzi. Giungono anche i vicini a dare un'occhiata a questi rumorosi bianchi e il padrone di casa, inorgoglito dall'essere la sua casa al centro dell'attenzione, sfodera il pezzo da 90: tira fuori il lettore di dvd e, dopo aver ripassato le istruzioni per un buon quarto d'ora, riesce finalmente a collegare tutti i cavi alla tv e a farlo funzionare. Ci propina un dvd con le danze tradizionali Amhara, con i tipici balli in cui si scuotono le spalle in quella maniera che noi non riusciremmo mai a riprodurre. Torniamo al camp e lo staff ha già montato le tende e apparecchiato la tavola, ammetto di non essere dispiaciuto visto che sta cominciando a piovere. La temperatura non è esattamente africana, anche perché Maji è piuttosto in alto, sarà a circa 1000 msl circa e mangiano "in umido". Mi metto il berretto di lana, con un pizzico di invidia da parte dei miei compagni di viaggio che non pensavano mai che sarebbe potuto venire utile. Si va a nanna, non prima che il lughese, nel tentativo di aprire il portellone posteriore del Land Cruiser, se lo ritrovi in mano: una delle cerniere si è spaccata e il viaggio proseguirà col portellone inutilizzabile, fissato con delle corde. Mi infilo nel sacco a pelo con la felpa addosso. Piove per tutta la notte.

 

5° giorno - Tra gente che appartiene ad un altro secolo

Mi sveglio e ispeziono la tenuta della tenda: chi ha montato la tenda ha genialmente messo la mia sopra ad una buca, che adesso è colma d'acqua. Fradicio il materassino, fradicio il sacco a pelo, bagnata su tutta la schiena la felpa che indosso, miracolosamente è rimasta asciutta la maglia che indosso. Per fortuna, dopo un po' che s'è fatto giorno, smette di diluviare. Vado per alzarmi, ma la caviglia dolorante la sera prima protesta. Ancora? Non mi sembrava poi sta gran botta. Ispeziono. C'è qualcosa nel punto in cui mi duole... È uno spino. Provo da solo a toglierlo ma non ce la faccio, allora chiamo il mio conterraneo che con le pinze del coltellino svizzero riesce, dopo qualche doloroso tentativo, ad estrarre un aculeo di 1,2 cm. Sollievo. Esco e poco dopo torna a piovere. Ci sistemiamo sotto la tettoia dell'ufficio governativo nel cui cortile stiamo campeggiando, sperando che smetta. Lì sotto facciamo colazione, mentre pian piano l'ufficio comincia a prendere vita, si presentano gli impiegati e anche noi entriamo dentro, nel corridoio, almeno evitiamo le sventagliate di pioggia. Mezza mattina se ne va così, coi materassini stesi sotto la veranda ad asciugare e le tende appese al soffitto in un "capannone" lì vicino in attesa che il tempo migliori. Siamo a mille metri d'altezza, in seguito dovremo andare più a sud, dove il clima dovrebbe essere un po' migliore, optiamo quindi per andare subito a Benchagi. Finalmente smette di piovere ma non possiamo partire con il materiale ancora fradicio. Facciamo un giro a Maji, per ingannare il tempo mentre aspettiamo che la roba si asciughi e ci fermiamo in un baretto locale. Di nuovo la fila della gente e dei ragazzi, tutti sono curiosi ma gentili e amichevoli, spesso si ride (peccato non sapere il perché...). Anche se le strade sono piene di pozzanghere ormai è un po' che ha smesso di piovere, il materiale da campeggio almeno un po' si sarà asciugato, torniamo alle macchine e partiamo.

 

Giovane bellezza Surma

Giovane bellezza Surma - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

Sosta per il pranzo a Tum, dove le strade sono ricoperte da mezzo metro di fango. Ripassiamo da Tulgit e facciamo un'altra sosta al villaggio, stavolta senza l'aiuto del Dizi del giorno prima e nell'altra parte del villaggio che non avevamo visto il giorno precedente. Problemi, il capo villaggio dice che dovevamo chiedere l'autorizzazione per visitare (allora ieri?). Problemi risolvibili nella solita maniera.

 

Proseguiamo verso Suri Kibish, il villaggio più importante della zona, dove c'è anche una stazione di polizia e una sparuta presenza di altre etnie. C'è pure un camp site, ai margini del villaggio, recintato e segnalato da un cartellone. Ma noi andiamo oltre, guadiamo un fiume e ci assestiamo qualche km più avanti, nel bel mezzo del nulla, in una specie di prato, sotto ad un bell'albero. Tempo mezz'ora e si fanno avanti un paio di stangoni (il ns. compagno di viaggio perugino, con le scarpe che loro non hanno, per guardarli negli occhi deve alzare un po' lo sguardo, quindi sono alti 2 metri a star stretti), col kalashinokov a tracolla, che avevamo incrociato poco prima quando c'eravamo fermati a comprare alcuni pesci per la cena.

 

Il mio conterraneo lancia di sua iniziativa la trattativa per far loro una foto ma qualcosa va storto, i due sembrano alterarsi un po', giunge la guida e tutto di normalizza. Si fanno fare la foto belli sorridenti e riscuotono. Poi salta fuori il padrone del terreno sul quale stiamo montando le tende. C'è un accordo di esclusiva tra lui e il nostro t.o. e si mette d'accordo sulla cifra. Se ne va e dopo mezz'ora arriva un altro sedicente padrone del terreno. La guida gli dice che il proprietario è già venuto e che lo conosceva anche in precedenza. Se ne va, senza sbraitare. Ha fatto il suo onesto tentativo. Uno dei due stangoni non se ne è andato, è rimasto lì e poco dopo è giunto un altro armato di kalashnikov: fanno parte della milizia del villaggio, una specie di corpo armato di cui ogni villaggio da queste parti dispone e dovranno incaricarsi della nostra sicurezza. Sembra l'ennesima scusa per spillare due soldi ma, in fin dei conti, in un posto dove la metà della gente che incontri ha un kalashinkov, potrebbe non essere un'idea così peregrina. Dopo un po' arrivano anche dei bimbi. E poi dei vecchi. Sono venuti a vedere la novità e si piazzano lì, seduti per terra, a guardare quello che succede al camp. Ceniamo, prima noi assieme alla guida, poi lo staff, e poi i nuovi assunti (i due della milizia, un giovane che sarà la nostra "guida" - cioè un Suri che parla anche l'amarico - e un ragazzetto che dà una mano al cuoco): una gerarchia che, nonostante i reiterati inviti, riusciremo a modificare solo l'ultimo giorno. Io, e non sono l'unico, ho di quelle torce elettriche da speleologo che si mettono in testa e permettono di avere le mani libere e per di più ho tirato fuori il cavalletto e pastrocchio per fare qualche foto al bivacco della milizia (più qualche avventore non pagato per il disturbo, lì solo per suo divertimento personale) che si sta apprestando a passare la notte a fianco al fuoco, col kalashnikov in braccio e una stuoia come unico giaciglio: ai loro occhi apparirò come un alieno, immagino.

 

La milizia di guardia al camp durante la notte

La milizia di guardia al camp durante la notte - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Benchagi non mi è chiarissimo dove sia, perché non si vede nessun villaggio. Sarà nei paraggi, presumo. Difatti di notte, al buio della tenda, sento dei canti provenire dal villaggio, paiono vicinissimi: c'è vita in quel buio che ci circonda e che apparentemente inghiotte tutto.

 

NOTE

(1) Chiarimento sui nomi. Col termine Surma il governo etiope individua colletivamente i Suri (a volte impropriamente chiamati Surma), i Mursi e i Me'en (di cui fanno parte Tishena e Bodi). Quindi, quando scrivo Surma intendo l'insieme dei tre popoli, Suri quqndo mi riferisco esclusivamente a questi.

(2) da ricerche successive quanto da me scritto inizialmente (che è poi quello che mi hanno detto sul posto) pare non essere corretto: il piattello labiale non determina l'importo della dote, anzi a volte succede che il piattello venga allargato a dote già pagata. Più semplicemente pare essere un abbellimento, oltre ad una sottintesa dimostrazione di capacità di sopportazione (e quindi forza interiore). Questa è la fonte.

 

continua...

 

Nella Valle dell'Omo - I

 

ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi

Roberto

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