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10° giorno
Sveglia all’alba con splendidi colori, dopo nottata senza vento, colazione fai da te (le provviste non calano mai, forse avevamo abbondato oltremisura) e partenza per Dur Ghella, che dalle poche note a disposizione è segnalata come una delle più interessanti dell’arcipelago. La si vede ad occhio anche da Dur Gaam, in 20 minuti di navigazione si approda sul lato ovest, quello frastagliato e con costa rocciosa alta tra insenature che farebbero la felicità di qualsiasi pittore psichedelico. Per chi vuole, immergersi in queste acque immagino sia un piacere unico al mondo, ma Dur Ghella proprio in questo periodo offre uno spettacolo assoluto. Il lato roccioso è territorio di nidificazione delle sule leucogaster, e proprio in questo periodo le coppie accudiscono ai piccoli appena nati. L’isola è deserta, il vento soffia verso il mare e quindi senza disturbare troppo si può arrivare nei pressi dei tantissimi nidi per ammirare questo splendida specie di volatile. Proseguendo a sud la costa entra maggiormente nel mare e la vista sulla parte che funge da nursery è completa, tra il verde del mare, il rosso delle rocce e il nero con becco viola delle sule. Lo scenario è di suo splendido, continuo il cammino accidentato sulle rocce fino al promontorio a sud per rientrare dalla parte centrale, più alta e meno coperta di arbusti che tagliano, alberi che fungono da casa per falchi. Qui l’avifauna non si risparmia, ha scelto l’isola più scenografica per far base, anche l’occhio vuole la sua parte. Di angoli incantati per nuotare meglio andare sul lato est, sul resto pesci dai mille colori ma anche barriera corallina molto limitrofa alle spiagge, per chi vuole nuotare in libertà un problema. Passata la mattinata, rientriamo per il consueto pranzo delle 14, che pare più un rituale degli addetti che nostro, ma qui son loro che comandano. Ennesimo giro di pasta asciutta, verdure, tonno e formaggio, relax e alle 16 ultimi giri al reef, oggi sul lato opposto dell’isola. Ogni uscita pomeridiana è andata in luoghi diversi attorno alla stessa isola, mare non particolarmente caldo oggidì, rientriamo con pochi pesci pescati. Poiché siamo a capodanno chiediamo di poter posticipare la cena, riusciamo a tirare un 19:15, oltrepassato un tramonto al solito coperto e luce già abbondantemente fuggita. Menù del cenone identico a quello dei giorni precedenti, giusto qualche leccornia in più che qualcuno si era tenuto nello zaino (una ratatouille, nocciole piemontesi) in una serata particolarmente ventosa che ci costringere a chiudere più aperture della tenda soggiorno. L’idea del tirare il nuovo anno con l’orario di qui non ci tocca minimamente, fissiamo un’ora della mezzanotte personalizzata (mi pare quella di Dushambe, 2 ore dopo che qui, 2 ore prima che in Italia) tanto nessuno ci contatterà per auguri vari. Da qualche giorno siamo completamente sconnessi da tutto ma nulla cambia nella vita quotidiana, si seguono i ritmi del luogo immersi in un territorio non facile ma che restituisce grande serenità.
11° giorno
Solita sveglia all’alba che nuovamente ha colori intensissimi, oggi più che mai, colazione col tanto ancora rimasto e una volta sistemati i bagagli ci prendiamo un ultimo attimo per rimirare l’isola che ci ha fatto da casa per quattro notti. Giro a sud verso la colonia di gabbiani, i nostri vicini di casa, per la classica immagine di cielo e mare coperto dallo stormo in volo (basta avvicinarsi che partono in un centinaio, fanno un sorvolo e si risistemano 10 metri più avanti), poi iniziamo a sistemare nuovamente i bagagli sulla barca, lasciando la parte del cibo non sigillato o non utilizzabile a cuoco e mozzo che rimarranno qui in attesa dell’arrivo di altri turisti. Rispetto al calcolo di tre litri d’acqua al giorno ne avremo bevuto circa due, dato anche il caldo molto limitato di notte, quella ci chiedono di riportarla, come marmellate e frutta, prodotti evidentemente qui poco apprezzati. In 70 minuti raggiungiamo Massawa, al controllo d’ingresso al faro non sopraggiunge nessuno così il barcaiolo ci porta a destinazione presso l’hotel che pare molto meglio sistemato rispetto a quanto visto in precedenza, anche se alcuni avventori spengono le lodi avendoci soggiornato. Va segnalato però come il suo ampio bar sia un punto di ritrovo degli Eritrei qui in villeggiatura per le feste di fine anno, forse di meglio non si trova. Il minivan che avevamo lasciato a Foro da riparare è ora in perfette (o quasi) condizioni, stiviamo i bagagli e partiamo per risalire le montagne, destinazione Asmara, non prima di aver convalidato il permesso d’uscita del mezzo al terminal dei bus. Lungo il cammino qualche sosta soprattutto in corrispondenza di vecchie costruzioni del periodo italiano, la guida ci tiene a mostrarle, tabacchi e telefono le insegne che ancora si scorgono. Tappa a Ghinda, un polveroso paesone all’inizio della salita, presso un bar senza nome proprio nella spianata centrale ci fermiamo. Siamo invasi da bambini che cercano di vendere biscotti e caramelle, scacciati malamente dagli anziani, bello assistere al passaggio in piazza, il viavai per il bus di linea che carica e scarica di tutto, pezzo principe le galline legate sul tetto, in un caso visto un bus con due capre sul tetto, e chissà se siano riuscite a rimanerci per tutto il tragitto tra curve, salite e discese. Si possono assaggiare anche piccoli triangoli di pasta frolla ripieni di carne o formaggio che alcuni avventori vendono lungo la via a prezzi irrisori, Ghinda è uno spaccato interessante perché lontana sia dalla capitale ma anche dalle altre città che ricevono i primi turisti, a maggioranza musulmana come nella maggior parte dell’Eritrea dei bassipiani. Rispetto agli altri luoghi emerge anche una povertà molto più accentuata, ma sempre lontana da quelle immagini tremende da Sud Sudan, Congo o similari. Perfino qui una parola in italiano rallegra la persona che si ha di fronte. Dopo oltre quattro ore di viaggio raggiungiamo la capitale facendo sempre tappa all’hotel precedente, lasciati gli zaini in camera e goduta una tonificante doccia calda, è subito tempo di immergerci nella vita serale di Asmara, le vie piene di gente (non solo giovani) la vasca del giorno di festa fa da contraltare alle serate alle Isole Dahlak completamente deserte. È festa, tutti sono in giro, magari pochi cenano fuori, noi siamo tra quelli, finiamo in un ristorante gestito da un Eritreo che parla molto bene l’italiano, non quanto la figlia (vera gestrice) che alterna il lavoro nel ristorante con la scuola italiana, e i risultati sono evidenti, un eloquio che farebbe impallidire molti nostri coetanei. Dimentico di chiedere uno shiro all’europea, è talmente piccante che dopo pochi assaggi desisto. Terminiamo la serata concedendoci anche noi lo struscio serale, ben coperti perché anche questa sera la temperatura precipita.
12° giorno
Mi regalo una prelibata colazione in un caffè che funge anche da pasticceria, un angolo d’Italia nella tradizione eritrea, molto frequentato a qualsiasi orario. Questa mattina ho tempo, per chi vuole l’agenzia organizza il tragitto col vecchio treno a vapore che un tempo scendeva a Massawa. Ora il servizio non esiste più, se un gruppo di turisti intende “noleggiare” il vecchio treno si può percorre il tragitto da Asmara a Nefasit, scendendo circa 700 metri di dislivello. Il percorso ricalca indicativamente quello attraversato più volte scendendo e salendo dal mare, evito questa gita che nulla ha d’autentico e tempi vaghi per farmi un nuovo giro in città tra i mercati, quelli sì sempre particolarmente autentici e interessanti. Per chi fosse interessato alla tratta ferroviaria, il prezzo varia in funzione dei presenti, occorre garantire il costo di almeno 20 persone, si va da circa 60$ a salire se il numero di persone non viene raggiunto. Mettete in conto svariate ore, il treno è vecchio, i pezzi di ricambio non si trovano, deve raffreddare spesso la locomotiva, insomma, per percorrere 25 km tra andata e ritorno possono servire anche sei ore. Ottenuto il permesso per Keren, nel primo pomeriggio si parte per la principale città del nord aperta a tutti, la seconda città dello stato circa 1.000 metri più in basso della capitale dal clima molto più caldo e secco, che dista circa 100 km percorribili in oltre 3 ore, comprese brevi soste fotografiche. Il percorso sale leggermente lungo la vecchia strada italiana ancora in discrete condizioni (la chiamano loro così, in realtà è la statale P2), sovente condivisa con mandrie di mucche o capre, ai lati ancora resti di carri armati della guerra d’indipendenza che da queste parti picchiò forte. Quando la strada inizia a scendere si entra in gole contraddistinte da un’abbondanza di cactus candelabro che con la luce del tramonto sono uno spettacolo di alto profilo. La strada peggiora quando si passa il doppio muro di contenimento della guerra italo-britannica, il passo rallenta ma v’è la possibilità di vedere alcuni villaggi tipici con abitazioni a tukul, sono dell’etnia Bilen, ora è già tardi, proveremo a fermarci l’indomani. Prima dell’ingresso a Keren canonico controllo dei permessi, nostri e del mezzo su cui viaggiamo, tappa all’hotel circa due km prima del centro, decisamente l’hotel migliore incontrato in Eritrea, bella camera con splendido bagno e acqua corrente calda, colazione compresa e volendo wi-fi con codice rilasciato in guardiola, ma connessione praticamente inutilizzabile. Doccia splendida e poi via in centro città accompagnati in minivan dalla guida, quanto mai utile presso il ristorante poiché il menù è solo in tigrino. Cena potabile se si ha l’accortezza di segnalare un piccante moderato in ogni piatto, con consommé offerto, appena terminato tentiamo un’escursione in città notando come già alle 21-21:30 il deserto la contraddistingua. Tutto gravita attorno alla grande rotonda in pieno centro, pure qui non c’è nulla, nemmeno un bar dove sorseggiare un tè o una birra, qui la vita è scandita dal ritmo della luce solare che ci ha abbandonato già verso le 18-18:30. Temperatura ottima anche di notte, non serve né felpa né antivento, mentre nelle camere in hotel fondamentale la ventola anche per rendere la vita complessa alle zanzare (unico luogo dove si sono incontrate).
13° giorno
Colazione in hotel, non a buffet ma a scelta un piatto con uova, pane-burro-marmellata e bevande, velocemente partiamo per l’escursione della città incominciando dai cimiteri di guerra, prima quello britannico a nord dove riposano molti sudanesi che combatterono per la Gran Bretagna, a seguire quello italiano più centrale, a sua volta pieno di ascari abissini al servizio degli italiani. Non lontano sorge il più celebre dei monumenti religiosi, il San Maryam Dearit, in un ampio complesso il santuario è posto all’interno di un gigantesco baobab. Già, non pensate ad una piccola icona, proprio un santuario vero e proprio nella cavità di un baobab della circonferenza di oltre 10 metri, dove leggenda narra che più combattenti trovarono riparo durante le guerre che qui sono passate. Liberi di crederci a queste leggende, l’albero ed il santuario sono però veri e visitabili lasciando una piccola mancia al monaco che accompagna. Ed ora è tempo di entrare e vagare in città, che vede muoversi un numero impressionante di viandanti, quasi tutti a piedi, dromedario, asino o cicli trasformati in inventive fattezze. Iniziamo dal mercato dei cereali, a suo modo ordinato e dai colori più svariati, dati appunto dai tanti tipi di cereali che qui si trovano, su tutti quello con cui si prepara l’injera, il teff. Due parole in italiano e scatta il gemellaggio, alla fine anche i più restii diventano amichevoli ed i soggetti fotografici sono numerosi, dalle prime preoccupati di quello che ne uscirà, alla fine non vorrebbero più staccarsi. Da qui, comprato il cereale si passa alla zona del setaccio, in parte con vecchi macchinari magicamente ancora funzionati, in larga parte a mano, interessante assistere al lavoro ed al mercanteggiare dell’azione, poi proseguiamo incrociando svariati avventori che giungono coi loro dromedari stracarichi di mercanzie. C’è la parte dei prodotti freschi tutta ben impostata, la parte dei vestiti con nelle vicinanze coloro che con vecchie macchine Singer riparano e sistemano a spron battuto per arrivare al richiamo principale della città mercato di Keren, l’argento. Qui si compra e vende qualsiasi manufatto in argento o oro, ma è l’argento la specialità del posto e minuziose sono le lavorazioni. La via in cui trovare le botteghe ha punti di ristoro, il tè è bevanda principe, e gustarsela in loro compagnia su sedie dalla dubbia tenuta un piacere unico (3n). Durante la stagione secca il fiume che taglia la città (un affluente dell’Anseba) fa da base al quotidiano mercato all’aperto, diviso tra cibo e prodotti per abbigliamento merita una visita, passando sotto i teli che fanno da protezione dal forte sole. All’estremità nord c’è il parcheggio dei dromedari, proprio qui, ma solo il lunedì, si estende il mercato dei dromedari. Sotto al ponte della via principale si appostano le signore che fanno da “bar”, cosa di meglio di un tè (3n) qui sotto dove c’è un’areazione naturale? Altra maniera di entrare in confidenza con la gente del posto, che curiosa prova a scambiare 2 parole, anche se va detto, riuscirsi è arduo, che sia in italiano o inglese, si familiarizza con un sorriso e una foto. Son già le 14 passate quando facciamo tappa nel dehor di un ristorante senza nome nella piazza dei fiori centrale, approfittando del luogo per consumare una delle tante scatolette di tonno rimaste dall’escursione alle Dahlak. Un buon caffè non me lo nego (10n), giusto prima di passare a vedere la vecchia stazione ferroviaria dove giungeva come ultima tappa del percorso la linea Massawa-Asmara-Keren, sulla costruzione ora adibita a bar e spazio gioco carte/dama svetta ancora il vecchio nome italico di Cheren. Nella piazza sterrata antistante ad una sorta di stazione dei bus, di ogni tipo e per ogni carico, una confusione festosa sotto un sole che spacca pietre e catene. E’ già ora di rientrare, con sosta al villaggio bilen di Adiberbere (o Scirhedrai come mi è parso di intuire nell’idioma del luogo) lungo il percorso. Proviamo a verificare se ci sia permesso l’accesso, una volta concesso si guada il uadi secco del fiume Anseba e si accede al villaggio con costruzioni tucul di questa etnia cattolica in un angolo musulmano dell’Eritrea (i bilen non hanno una propria fede religiosa, ce ne sono di cattolici come questi ma anche musulmani). Se ora il fiume è attraversabile perché completamente secco, nella stagione delle piogge occorre reggersi ad una fune che lo sovrasta e con la forza delle braccia spostarsi sul versante della strada, i bambini lo fanno ogni giorno per andare a scuola, oltre ai circa 45’ a piedi da qui a Keren. Le genti che abitano il villaggio sono particolarmente socievoli, ci aprono case e orti, chi è nei campi rientra appositamente, nessuno vuole sentirsi escluso. Interloquire con loro è possibile solo tramite la guida date le differenze linguistiche, l’interno dei tucul, ben tenuto (e non certo per la nostra visita casuale) mi ricorda le gher mongole anche se i tucul sono decisamente più piccoli, da un lato la parte notte, dall’altra la parte cucina con le stoviglie riposte come una piccola opera d’arte. Non una briciola per terra, un pulito in grande contrasto con l’esterno tutto in terra, legna accatastata e capre legate al pozzo dell’acqua che si trova appena fuori dal villaggio nei pressi del fiume. Risaliamo la valle rimirando nella luce migliore i cactus candelabro e i carrarmati, lasciati dove furono fatti saltare a imperitura memoria della liberazione dall’Etiopia. Rientrati ad Asmara al solito Savanna Hotel, riprendiamo il bagaglio lasciato in deposito (per le escursioni di una sola notte meglio girare con poco peso al seguito lasciando il grosso alla reception) e dopo una doccia ristoratrice è tempo di cena in centro città, tappa al quotato New Fork (150n) molto frequentato, tanto che senza prenotazione fatichiamo a trovar posto. Buona qualità con tempi più dilatati, stranamente i prezzi che paghiamo sono più bassi di quanto riporti il menù, strana ma simpatica usanza. Visto che siamo in capitale, ci immergiamo nella vita serale, che consiste nel farsi la vasca delle vie centrali, approfittando di un passaggio dal caffè Fiori per recuperare valide paste per la colazione dell’indomani. Non c’è vento nella serata ma la temperatura fa sì che un pile sia necessario.
14° giorno
Sveglia anticipata, colazione col makiato dell’hotel (12n) e con le brioche comprate il giorno prima al caffè Fiori, poi subito via verso sud. Rimarremo fuori Asmara per una notte, anche in questa occasione è possibile lasciare gran parte dei bagagli in hotel per essere più leggeri ed avere più spazio a disposizione nel minivan che abbisogna di più soste per sistemare il filtro dell’aria ma soprattutto quello della benzina, sostituito più volte. Via lungo la statale P3 ora percorribile fino al confine che lambiremo l’indomani, dopo canonico controllo permessi in uscita dalla capitale, operazione che è ripetuta all’ingresso ed uscita da ogni paese incontrato, anche se in realtà sovente basta un cenno dell’autista. Passiamo da Dekemhare, prima dell’ingresso vero e proprio un intarsio nella montagna documenta la costruzione della strada da parte italiana, mentre dall’altra parte sorge ancora un grande portale di epoca etiope, era uno stabilimento al tempo del DERG, a fianco resti di carrarmati, una vista quasi quotidiana da queste parti. Dekemhare era la cittadina di riferimento per le genti italiane, il centro è ancora lasciato a quell’epoca e pare proprio di visitare un assonnato paese di provincia tutto giallo paglia col bar centrale, il cinema Imperiale e le piazze tipiche dei nostri luoghi, magari percorse più da animali che da mezzi a motore. La strada inizia a peggiorare inoltrandoci nelle prime montagne, passando da Meareba si avvistano le prime piccole ambe (montagne piatte che paiono un unico monolite) e facciamo tappa a Segheneyti presso la comunità delle monache di Inda Padre che gestiscono un asilo e un piccolo laboratorio tessile. Un numero indefinito di bambini nei loro candidi grembiuli blu sta ascoltando in composto silenzio le indicazioni delle monache, sono curiosi ma tranquilli, ovviamente quando gli viene dato il via ci assalgono curiosissimi, nel laboratorio si possono acquistare capi prodotti su rudimentali telai, nello spazio interno attorno al pozzo (l’acqua corrente non c’è) è dipinta un’interessante mappa dell’Eritrea che delinea le province (6) e le etnie (9). I prezzi dei manufatti sono economici rispetto a quando s’incontra solitamente in luoghi analoghi, lasciamo una mancia per la visita mentre appena fuori faccio notare in una piazza sterrata antistante la presenza di uno splendido canestro sotto al quale più che giocatori tagliano a canestro i buoi. Poco fuori dal paese, in una deviazione sulla sx non segnalata si arriva alla celebre valle dei sicomori, enormi alberi che in questa piana fanno bella mostra di se, uno dei quali è immortalato nella banconota da 5 nafka. Oltre all’ombra preziosa che elargiscono sono altamente scenografici, vantano almeno 300 anni e svettano giganteschi tra colonie di cactus candelabro, un passaggio sotto alle fronde regala un concerto di uccelli che magari non si avvistano nemmeno ma non udirli è impossibile. Da qui si prosegue inoltrandoci tra le montagne lungo un cammino tortuoso e pressoché solitario fino alla meta di giornata, Adi Keyt dove facciamo tappa al Central Hotel (400n x camera doppia) considerato il meglio in città ma già in pessime condizioni, poche camere con bagno, quasi nessuna doccia con acqua calda, a volte proprio niente acqua, tazze senza sciacquone e quasi nessuna che funzioni, niente colazione ma una specie di bar con tempi da bradipo, e un senso di decadenza dato anche da varie parti che cadono a pezzi. Wi-fi sconosciuto, ma questo è il problema da meno, tempo per un giro della cittadina, trafficatissima lungo la statale, percorsa da mille persone che si spostano da e per il mercato, unico posto dell’area dove trovare gasolio. La parte nuova e commerciale della città sorge lungo la via maestra, la parte vecchia con gli edifici religiosi a ovest sulla collina opposta, nel mezzo una terra di nessuno assolata piena di gente a sedere, non sono riuscito a farmi spiegare cosa facessero, nella parte nuova un sacco di ragazzi giovani usciti da scuola che qualche parola d’inglese la masticano, molto più curiosi loro della mia presenza lì che io nel cercare di capire cosa avvenga in città. Tante piccole botteghe, numerosi i negozi di scarpe, ma piccoli bar, forni o pasticcerie non mancano (ovvio che sono da intendersi all’eritrea), la città è viva ed in fermento anche se un cartello spiega bene di non avventurarsi troppo fuori dal centro abitato per il pericolo delle mine, avvicinandoci al confine entriamo in un’area dove la guerra era intensa e non tutto è ancora sistemato. Prendo una pasta in un luogo (3n) ed un tè in un altro (5n), tutto molto veloce e comodo prima di partire per il più celebre sito archeologico dell’Eritrea, Kohaito. Dista circa 10km a sud su strada asfaltata con molti lavori nel mezzo, poi svolta a sx per altri 10km su percorso sterrato, impieghiamo oltre 30’ per giungere in un villaggio remoto in cui svetta nel nulla una moschea particolarmente scenografica. Qui ci sono svariati luoghi da visitare, fondamentale è trovare l’addetto che pare essere alla festa per il matrimonio del giorno seguente della figlia. Dopo circa 30’ compare tra la festa di mezzo presente che staziona curioso attorno a noi, partiamo per la visita al canyon e alle pitture rupestri di Adi Alauti. Va detto che senza guida non è facile identificare il sentiero, poi chi soffre di vertigini eviti il passaggio, alcune parti sono a bordo del crepaccio, nulla a cui reggersi su pietre mobili, lo spettacolo però è fantastico anche perché sul versante opposto svettano le cime più alte dell’Eritrea, proprio dritta a noi quella del Monte Ambasoira, di poco più di 3.000m. Le pitture in sé per sé non dicono più di tanto, anzi, senza le indicazioni della guida alcune di queste potrebbero raffigurare qualsiasi animale (che sia gazzella, rinoceronte o leone, invece di cane e gatto è dato solo dalla spiegazione della guida), certo che incise oltre 6.000 anni fa è già tanto poterle rimirare. Non c’è nessuna protezione, non so quanto potranno durare nel tempo, la guida le indica puntandoci sopra il suo ditone…A passo lento s’impiegano circa 30’ dalla partenza al punto delle pitture rupestri, non tanto per la lunghezza del sentiero ma per quanto sia accidentato e pericoloso. Rientrati ci spostiamo al sito simbolo di Kohaito, le colonne del tempio di Mariam Wakiro che nel punto più alto dell’area svettano solitarie su rovine che con tutta probabilità conterranno preziosissimi reperti di questa civiltà in larga parte ancora sconosciuta. In alcuni punti ci fa notare che se facciamo cadere una pietra udiamo il rimbombo del vuoto sotto ai nostri piedi, servirebbero ancora tanti soldi per procedere con gli scavi. Da qui scendiamo e risaliamo al punto panoramico sui canyon che si perdono a vista d’occhio in pratica fino al mare. E’ già ora del tramonto, magari meglio arrivare con un po’ d’anticipo, ma lo spettacolo perde sì d’intensità ma guadagna di mistero con le terre basse che si perdono nel nulla, si avvistano i sentieri che le carovane percorrevano per scendere al porto di Adulis, tutto si riconnette da quassù. Ricorda l’enormità dei canyon a Creel, Mexico, là dove la barranca taglia la terra con canyon profondi fino a 2.500m, qui però con un isolamento assoluto. Ma non abbiamo terminato, passiamo da un pozzo dove gli abitanti vanno con asini e dromedari a recuperare l’acqua per le abitazioni e dove sorge un’antica tomba egizia, altro mistero del luogo, da qui il tramonto sullo skyline del villaggio regala un’iconica vista della moschea che si colora di giallo e poi di rosso, rientrando bordeggiamo un piccolo lago artificiale dovuto alla diga di Saphira, anche se resta il dubbio che fosse un’unica enorme cisterna, della quale rimane solo una parte a formare la diga. Salutiamo la guida lasciandogli circa 100n di mancia, è già buio quando iniziamo il rientro lungo il sentiero in terra battuta perdendoci. Con i nostri navigatori off-road (non pensate di utilizzare qualcosa on line qui) non troviamo il sentiero ma abbiamo un’idea di dove potrebbe essere la strada, così vagando verso quella dopo 2 o 3 info chieste a gente che abita nel nulla del nulla di quest’altipiano battuto dal vento è festa grande quando ritorniamo nella statale per Adi Keyt, dirigendoci subito a cena. Qui le tempistiche sono ancora più anticipate che altrove, troviamo posto solo al Milan City Park (95n), qualità pessima ma altro non c’è, un cartello indica che le bevande alcoliche non sono servite, ma se richieste, vanno loro a comprare la birra all’esterno e la servono senza problemi. Notiamo che qui nessuno cena, i giovani locali si ritrovano nel locale e bevono bicchieri di latte a profusione, che sia il latte+ di Arancia Meccanica? Di sera la temperatura in città, dopo il caldo intenso del giorno, precipita, i quasi 2.400m si fanno sentire. Per riuscire ad avere una doccia calda occorre testare tutte le docce del malandato hotel, alla fine ne scovo una, regolabile tra caldissima ed ustionante, ma una doccia fredda con la temperatura esterna attuale è sconsigliabile. Asmara-Adi Keyt distano indicativamente 110km, percorribili in 3h senza soste.
15° giorno
All’alba a Adi Keyt quasi tutte le attività sono chiuse, prima delle 8:30-9 nulla apre, così per colazione un tè in hotel (5n) e le marmellate rimaste dalle Dahlak col pane della sera prima, della serie, meglio non buttare via nulla. Si parte per Senafè e le celebri Dolomiti, meno di 30km di strada pessima, tra deviazioni per lavori, animali, buche enormi ma anche viste mozzafiato. Impieghiamo circa un’ora con alcune soste fotografiche, tra ambe che si susseguono fino a Amba Metera che sorge proprio nel centro della cittadina, dove la popolazione arriva a fiotti a piedi o su carretti per il mercato. In città dobbiamo recuperare il permesso per accedere al sito di Metera, che si raggiunge da una laterale sterrata della via principale a sud della città, in pratica nell’ultimo tratto di strada eritreo prima del confine con l’Etiopia, tratto che fino a settembre non era percorribile quindi i controlli, soprattutto per gli stranieri non mancano. Mentre attendiamo rimiriamo le ambe nel pieno centro cittadino, sotto ad una di queste un distributore Tamoil di chiara architettura italica praticamente inutilizzato dato il parco automezzi che va più a fieno e carrube che benzina. Arriviamo così al sito archeologico di Metera, contraddistinto dall’enigmatica stele nel suo centro proprio sotto all’Amba Saim. Al di là del significato che ancora è controverso, va segnalato che il sito è pre aksumita, uno dei più antichi ritrovamenti al mondo, oltre 6.000 anni fa, e che nella piana “dolomitica” è uno spettacolo assoluto tra spazio, colori, rocce e rovine. Poco è ancora scavato, la guida ci fornisce la sua interpretazione, dicendoci chiaramente che ci illustra quello che la scuola italiana di Asmara le ha spiegato ma che pure altre teorie possono trovare un fondo di verità, conviene lasciarsi cullare da questi panorami di montagna che paiono però nel deserto, stranianti. Lungo i sentieri limitrofi, un fiume di gente che con ogni carico sulle spalle quando non su buoi o asini raggiunge la città per scambiare merci, qui il baratto ha ancora un valore, forse pure superiore a quello del denaro. Sull’Amba Metera sorgono alcuni monasteri, la salita alla sommità richiede tempo e abilità con una parte in cordata, poiché non possiamo rischiare dovendo rientrare per l’aereo in nottata, ci fermiamo al monastero posto all’inizio della salita, all’interno del quale vi è anche una costruzione con inserti a testa di scimmia, come sono denominati qui le strutture con supporti orizzontali in legno sporgenti. Si può salire sulla piccola amba che ne cinge il perimetro per godere della bella vista a sud fino al confine, spazi ora aperti, sperando che possano restare tali. Prima di uscire da Senafè occorre di nuovo registrare il nostro passaggio, poi un ultimo sguardo al mercato cittadino e via verso il ritorno. Notiamo che i lavori di ripristino della strada sono effettuati da incaricati con divise da carcerati e scortati da addetti dotati di fucili, in effetti ci viene confermato che questi lavori stradali sono affidati a carcerati ai quali manca giusto la palla di ferro al piede. A loro discapito, per il lavoro di 4 persone, sono in 20, lavoro duro ma a ritmi lenti, più da consulente che da operaio. Raggiunta Adi Keyt, sosta al mercato per comprare 2 taniche di gasolio che non si trova dai distributori fuori capitale, un salto dal fornaio per qualche prelibatezza locale (ogni pezzo a 3n) e poi tirata fino ad Asmara in circa 3:30 con sosta cibo per l’autista a Dekemhare in caratteristico ristorante con nome solo in tigrino. In città tempo per un ultimo giro in centro, poi in hotel per sistemare il bagaglio e utilizzare i bagni comuni per una rinfrescata prima di uscire a cena. Vorrei cambiare gli ultimi nakfa rimasti in $ o €, giorni prima alla reception ci avevano dato la possibilità di farlo, ovviamente ora si trovano sprovvisti di monete straniere. Anche all’ufficio Western Union niente da fare, arrivo 5’ prima delle 18, orario di chiusura, ma lo trovo già ben serrato. A questo punto provo un popolare locale che riporta solo la scritta pizza, con ovvi prezzi popolarissimi (90n x gigantesca pizza piccante e bibita) ed un salto al bar del teatro dell’opera (caffè 10n) dove sfruttare un wi-fi appena decente (30’ x 10n, oppure 60’ x 15n) giusto per comunicare che il viaggio è giunto al termine e il rientro è prossimo. Col solito minivan andiamo all’aeroporto arrivando circa 2:30 prima del volo, verso le 22. Lo troviamo chiuso, con gente in attesa dalle 19 all’aperto nel parcheggio che aveva pensato di far tappa qui, magari mangiare qualcosa nel frattempo, peccato che l’aeroporto internazionale di Asmara apra solo in concomitanza con i rari voli per l’estero, quasi tutti di notte come quello della Turkish. A noi va bene, dopo 15’ arrivano gli addetti, c’è il controllo ai raggi X dei bagagli all’ingresso e del passaporto, il check-in è veloce e le addette parlano un buon italiano, il controllo del passaporto in uscita è più veloce dell’ingresso, ma circa 3’ li richiede. Poi 3 persone sedute subito dopo il controllo devono verificare che la collega abbia apposto il timbro giusto, un nuovo controllo raggi X e si sale ai gate di partenza. In teoria i nakfa non sarebbero esportabili, l’ufficio cambio non è però raggiungibile da questo versante dell’aeroporto e saliti ai gate di partenza stanno aprendo 3 negozi dove qualche paccottiglia è esposta con prezzi europei per prodotti evitabilissimi, giocano sulle rimanenze dei nakfa. In realtà se si vogliono portare fuori soldi come souvenir nessuno controlla nulla, quindi fattibilissimo. In un aeroporto deserto, saremo in 30 non di più nel gate, attendiamo il volo Turkish che sarà puntuale, nessun annuncio, nessun monitor ad indicarlo, c’è un solo gate aperto dei 2 presenti, con un gesto ci chiameranno quando sarà il momento.
16° giorno
Passata mezzanotte è tempo di salire su di vecchio e scassatissimo bus per fare i 100 metri nel vuoto e buio della pista dove staziona il volo Turkish destinazione Istanbul che parte puntuale, più vuoto che pieno. La cena è servita quasi subito, buona come all’andata, ci sarebbe la possibilità di utilizzare i servizi dello schermo a disposizione, ma dato l’orario e la giornata alle spalle provo a dormire, come quasi tutti mi par di capire, in un caldo tropicale che avvolge l’airbus in ogni dove. Prima della discesa ad Istanbul rapida colazione, atterriamo dopo 4:30 puntuali nello stesso aeroporto dell’andata, Ataturk. Significa che l’immaginifico nuovo Istanbul International, che tanto ha spinto per crearlo in tempi da record il governo turco, non è ancora entrato in funzione, disdicendo quindi le previsioni del 1° gennaio 2019, per fortuna ci viene da dire, poiché un aeroporto ai primi giorni d’operatività qualche inconveniente lo avrebbe potuto presentare. Questa volta i controlli in arrivo ci sono, anche se veloci, ho quasi 4h di attesa, grazie al wi-fi (va fatta la registrazione poi si hanno 2h di navigazione a disposizione) butto un occhio su cosa sia accaduto nel mondo in questi 15 giorni mentre attendo il volo per Bologna, il cui gate è indicato sui monitor solo dopo 2h. Sempre Turkish, raggiungibile col pullman interno, questa volta completamente pieno, anche qui appena saliti in quota è servita una colazione abbondante, dopo circa 2:40 di volo atterro a Bologna in perfetto orario con un bel sole ed un freddo intenso, condizioni che in Eritrea erano in antitesi, se sole bel caldo di giorno, se freddo notte fonda.
continua...
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Luca