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16 – Giovani Matis
Oggi tenterò di incontrare i Matis. Si tratta di un popolo dalla storia piuttosto travagliata: incontattati fino al 1978 quando, dopo tre anni di trattative, accettarono di incontrarsi con i rappresentanti del già citato FUNAI, pagarono ad un prezzo carissimo questa scelta. Originariamente circa in 450, appena cinque anni dopo erano meno di 90, decimati dalle malattie contratte dalla vicinanza coi bianchi per le quali non avevano difese immunitarie. Anche un semplice raffreddore era mortale per loro. A farne le spese furono soprattutto bambini e anziani, questi ultimi portando con sé nella tomba molte delle conoscenze e tradizioni ancestrali.
Sull’orlo dell’estinzione, si accamparono in unico insediamento presso un centro medico per poter beneficiare di quelle cure immediate che, vivendo nei loro remoti villaggi, non avrebbero potuto avere. Superato il momento critico, dal 2005 hanno cominciato a tornare nei loro luoghi natii, però non vogliono più che i bianchi vadano nelle loro terre e si dice che, per non saper né leggere né scrivere, prima tirino una freccia e poi chiedono chi è. Visto quello che hanno passato, c’è da capirli, anche se il discorso è più complesso di un semplice “non vi vogliamo incontrare per non ammalarci” e coinvolge la complessa filosofia dei Matis che spiegherò meglio in seguito.
Questo angolo del Brasile ospita la seconda riserva indigena più grande dell’Amazzonia ed è una delle zone al mondo a più alta densità di popolazioni sconosciute o molto poco conosciute. In una perlustrazione aerea agli inizi del corrente millennio, vennero rilevate una ventina di comunità indigene mai contattate, ad oggi il FUNAI ritiene che delle circa 50 etnie non contattate presumibilmente presenti in Amazzonia, almeno otto siano in questo territorio. Lungo lo stesso fiume in cui vi sono i villaggi Matis, vivono anche i Marubo e i Korubo - l’unico altro popolo dello stesso ceppo linguistico dei Matsés e dei Matis -, quest’ultima una bellicosa etnia che è stata contattata solo da tre diverse spedizioni del FUNAI e che rifiuta ogni ulteriore interazione coi bianchi.
Il FUNAI, allo scopo di difendere questo loro diritto, ha posto un stazione di controllo alla confluenza del fiume dove vivono, col preciso compito di rimandare indietro gli intrusi. Ciò nonostante, appena due anni fa, due missionari hanno voluto entrare in contatto coi Korubo, benché fossero stati avvisati dal FUNAI dell’ostilità dei Korubo. Sono stati ammazzati, almeno questo è quello che ho sentito dire, anche se non ho trovato conferme sul web. I Matis non sono così aggressivi, per quanto non facili da contattare al punto che anche Hector, specializzato in turismo non convenzionale, vorrebbe organizzare un viaggio per visitarli ma non ha i contatti per farlo.
Da Leticia prendo un mototaxi e, attraversato un posto di blocco praticamente inesistente, mi ritrovo a Tabatinga, la parte brasiliana della città. Mi faccio portare all’ufficio della Policia Federal per far registrare il mio ingresso: non sarebbe necessario se rimanessi a Tabatinga o negli immediati paraggi, ma andando più lontano sarebbe obbligatorio, anche se non c’è modo alcuno per controllare la cosa. Poi vado al porto e cerco una barca per Benjamin Costant, qualche decina di chilometro più a sud sull’altra riva del fiume.
Sono in Brasile, un paese dove non sono mai stato e che mi ha sempre trasmesso un po’ di timore: il paese è un colosso e anche i suoi abitanti già mi paiono più grandi, grossi e scaltri degli indios alla cui piccola taglia e fare dimesso ormai mi sono abituato. La pericolosità delle periferie brasiliane è tristemente famigerata e io, che non sono cintura nera in nessuna arte marziale, baso da sempre l’efficacia della mia autodifesa sullo stare attento a non cacciarmi nei posti sbagliati. Inoltre non parlo portoghese e non ho ancora avuto tempo di acquistare della valuta locale.
Giovane Matis col volto dipinto di rosso, pronto per andare a caccia - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Tenere le antenne dritte è una delle cose che mi salva nelle situazioni che non conosco e anche stavolta mi viene utile. Tra quelli che attendono di salire sulla mia stessa barca, una fast boat, c’è un ragazzo che parla in castigliano al telefono e capisco che è diretto ad Atalaia do Norte. Non lo perderò di vista. Giunti a destinazione lo tampino e vedo che s’infila in una porta: è la locale sede di una cooperativa di autisti, dove è possibile prendere dei taxi collettivi e quindi meno cari. Perfetto.
Faccio presente che anch’io voglio andare ad Atalaia e ci mettono in attesa dei passeggeri per completare il mezzo. Dopo più di mezz’ora non s’è fatto vivo nessun altro e allora chiediamo al tassista di partire lo stesso, pagando un leggero sovrapprezzo. Accetta e come per magia dieci secondi dopo appare il terzo viaggiatore, che poi scaricheremo pochi chilometri dopo essere partiti mentre Atalaia è a circa 40 km da dove sono sbarcato. Giunto a destinazione, saluto il compagno di taxi e ci diamo appuntamento per il ritorno, alle 17:00, così da risparmiare anche al ritorno.
E ora come lo becco questo Matis di cui mi ha detto l’americano di chiedere? Non mi è chiarissimo il perché - forse perché il Brasile gode di quella fama non felicissima di cui parlavo prima - fatto sta che sia l’americano sia Hector mi avevano caldamente raccomandato di stare molto attento ad Atalaia do Norte, di mantenere il profilo il più basso possibile anche perché gli altri abitanti sono invidiosi dell’attenzione che i (pochi) turisti rivolgono ai Matis. Cerco di sembrare il “meno turista” possibile e, anche se tengo le macchine fotografiche sepolte nello zaino, è impresa impossibile.
Gironzolo un po’ fino a quando non giungo in quello che sembra il porto del villaggio, che si apre sull’ampio fiume Javarì, lo stesso sul quale, qualche centinaio di chilometri più a monte, sono decollato con l’idrovolante. Non devo fare niente che le cose accadono da sole. Un tipo, dalla barba bianca, una stampella e la chiacchiera facile, attacca bottone: “Chi stai cercando?” mi dice in castigliano dopo aver capito che il portoghese non è il mio forte. “Un Matis”. Sbarra gli occhi ma non so se sia per lo stupore o perché si rende conto che qualcuno ha abboccato all’esca che ha buttato.
Gli dico il nome del contatto e lui, alzandosi per condurmi da un ragazzino, fa lo “splendido” e capisco che questo è un servizio che dovrò pagare. Però evidentemente funziona, perché il ragazzo dal quale mi porta è inequivocabilmente un Matis, ha gli stessi lineamenti di quei volti raffigurati nelle fotocopie che tanto piacevano ai Matsés. Gli parliamo, col tipo che mi fa da traduttore anche se il portoghese a tratti lo capisco. La persona che cerco non c’è, è fuori, però può farmi incontrare con qualcuno che ne fa le veci.
Ci incamminiamo alle spalle del ragazzo, e il tipo cerca di far pesare il suo apporto alla causa. Addirittura, quando cammino troppo vicino al ragazzo, mi prende per un braccio e mi tira indietro, come per distanziarmi da lui, dicendo di stare molto attento, che i Matis sono gente pericolosa, che comunque c’è lui a difendermi. Ah beh, se devo farmi difendere da uno con la stampella, non sono messo benissimo…
Giovane Matis con le caratteristiche collane di perle incrociate sul petto - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Giungiamo in questa casa, piuttosto grande e moderna, dove, dopo qualche minuto di attesa ci fanno entrare. In pratica questo edificio è una specie di “casa dello studente Matis”: i ragazzi in età per le scuole superiori (direi tra i 14 e i 19 anni), non possono seguire regolari corsi di studio ai loro villaggi, quindi vengono ad Atalaia do Norte e vivono insieme in questo spazio, salvo tornare al villaggio quando la scuola è chiusa e, definitivamente, una volta terminati gli studi. Ciò nonostante non hanno abbandonato le tradizioni: a differenza di quanto avviene tra i Matsés, buona parte dei ragazzi hanno i tatuaggi facciali - delle righe oblique che rappresentano i baffi del giaguaro - che si fanno al passaggio dalla pubertà all’età adulta, attorno ai 18 anni.
Il capetto della combriccola è un ragazzo di 22 anni senza tatuaggi perché quando raggiunse l’età era a studiare a Manaus, molto lontano da qui: farà il tatuaggio prossimamente. Spiego che sarei interessato a visitare un villaggio Matis - e mi mostrano una foto di un gruppo di trentina di loro assiepati davanti ad una gigantesca maloca che, se fosse possibile, mi fa venire ancora più voglia - ma che purtroppo, non avendo tempo a disposizione, mi accontento di fare delle foto ad Atalaia o nei paraggi. Non c’è problema, basta mettersi d’accordo sul prezzo.
Però bisogna prenderla un po’ alla larga e quindi mi informo su come sarebbe possibile visitare un villaggio. Da quel che capisco - c’è sempre il traduttore con la stampella al mio fianco – vedere un villaggio è vietato, perché per i motivi spiegati in precedenza a nessun non indio viene permesso di recarsi dove vivono donne e bambini. Al massimo è possibile condividere un accampamento nella foresta, dove alcuni di loro - presumibilmente quelli che hanno sviluppato gli anticorpi dopo i primi, disastrosi, contatti - si uniranno, pronti a mostrare come cacciano con le cerbottane e i loro riti ancestrali.
Sarebbe ugualmente molto interessante, perché i Matis più anziani sono davvero spettacolari. Non solo hanno il tatuaggio sulle guance ma, a differenza dei giovani che ho di fronte, portano anche dei piercing sul naso, nello specifico dei corti bacchetti neri, che rappresentano ulteriori baffi del giaguaro e un bacchetto conficcato sotto al labbro inferiore. Completano l’opera delle conchiglie, una tagliata a forma di arco e infilata nel setto nasale e altre circolari fissate alle orecchie, come se fossero degli ulteriori padiglioni auricolari che aumento l’udito durante la caccia.
Queste decorazioni seguivano un ordine ben preciso: il primo piercing, all’età di 3 o 4 anni, veniva praticato ai lobi delle orecchie, poi il primo “baffo” attorno agli 8 anni (arrivando al massimo ad avere una dozzina di baffi per narice). Più tardi avviene l’apertura del setto nasale per l’inserimento della conchiglia e le donne pongono un bacchetto sotto al labbro inferiore dopo la perdita della verginità. In un’età compresa tra i 16 e i 20 anni, vengono praticate le decorazioni più importanti: i musha, dolorosi tatuaggi costituiti da due righe parallele tra tempie e guance.
È la cerimonia più importante nella vita di un Matis: richiede lunghi preparativi, dura anche un paio di settimane e al suo termine gli adolescenti rimangono reclusi per alcuni giorni. Dopo questo rito, solo i ragazzi, considerati ormai completamente adulti, potranno aggiungere i mananukit, “baffi” più lunghi e grossi da infilare nelle narici. Seguirà un’altra cerimonia di tatuaggio, durante la quale vengono tatuate le righe parallele sulle guance, in un numero che varia tra le 6 e le 8. La graduale acquisizione degli ornamenti enfatizza i diversi livelli di maturazione individuale, finendo col disegnare un preciso percorso di crescita personale che riflette il pensiero Matis, fortemente basato su una gerarchia che riserva il ruolo dominante agli anziani e sul progressivo accrescimento della conoscenza.
Le conchiglie come orecchini servono per potenziare l'udito - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Il resto del corpo è completamente nudo, se si eccettuano alcune collane indossate a tracolla. Il pene viene legato in vita per la punta, cosa che i giovani, specie in un contesto “cittadino” come quello di Atalaia, non fanno più. Anche i Matis si dividono in due diversi gruppi: i tsasibo - di segno “maschile” e “interno” - e gli ayokobo - femminile e esterno/straniero. A differenza di quanto avviene presso i Matsés, tutti vogliono essere tsasibo perché gli ayokobo vengono dileggiati e ritenuti inferiori. Coi Matsés hanno in comune altre cose, oltre alla lingua di origine Pano.
Il Mariwin è una cerimonia durante la quale gli adulti mascherati entrano nel villaggio camminano curvi e facendo urli animaleschi, con gli altri adulti che portano al loro cospetto i bambini - a partire dai 2/3 anni di età - e gli adolescenti - a volte anche le donne -, che non si sono comportati bene. Gli uomini mascherati allora li frustano con una canna, ma può essergli inferto un solo colpo perché lo scopo non è quello di causare dolore ma di dare un insegnamento. Questo si ripete in ogni anno, nella stagione in cui si attende che il raccolto maturi - credono che questa cerimonia ne velocizzi la maturazione -, e quindi un bambino/ragazzino affronta questa esperienza per diverse volte nella sua giovane vita, abituandosi al concetto che per crescere forti bisogna sottoporsi a delle dure prove. Un rito di passaggio dall’età puberale a quella adulta che ha parecchi punti in comune con gli insegnamenti del “diavolo” di cui mi hanno raccontato i Matsés.
Le decorazioni corporee sopra descritte sono in disuso anche per motivi “filosofici”: secondo le credenze Matis, queste decorazioni fanno parte di un complesso sistema che richiede uno stile di vita particolare. In pratica gli uomini evitano il cibo dolce (bata sho) e mangiano solo quello amaro e/o piccante (sho). Il cibo dolce, considerato femminile, protegge dalle malattie mentre il cibo amaro espone a dei rischi, rischi che i Matis sceglievano scientemente di correre perché in cambio sarebbero diventati non solo degli instancabili e provetti cacciatori ma anche degli uomini più potenti (a livello sciamanico).
A causa delle malattie che li hanno quasi fatti sparire, ora non rispettano più l’antica dieta e i giovani non possono più effettuare i piercing al naso, una pratica possibile solo se si segue uno stile di vita molto sho. È anche per questo che, durante i primi contatti coi bianchi, venivano mandate avanti le donne, la cui alimentazione si riteneva le rendesse più simili ai bianchi e quindi più resistenti alle loro malattie (secondo i Matis i bianchi hanno sviluppato, proprio grazie a questa alimentazione “mista”, una specie di indennità alle malattie). Quindi la “via del sho” è stata abbandonata soprattutto per il timore di non sopravvivere alla nuova epoca foriera di contatti coi contagiosi bianchi ma anche perché la prematura scomparsa degli anziani ha contribuito alla perdita della conoscenza necessaria, e ad una minore incentivazione, per seguire questo stile di vita pieno di tabù.
Questo spiega la difficoltà nell’incontrare gli adulti, senza contare che per giungere nel loro territorio occorrerebbe risalire il fiume per almeno due giorni - quindi almeno quattro giorni fra andata e ritorno - cosa che non ho più, e 3000 dollari, cosa che non avevo nemmeno prima. Questa è la tariffa che chiedono per un gruppo, incuranti del fatto che il mio gruppo sia costituito unicamente da me. Chiedo quanti gruppi li visitano e mi dicono che io sono il terzo gruppo dell’anno: prima di me si sono presentati da queste parti quattro tedeschi e in seguito tre olandesi. Di questo passo dubito che andranno in doppia cifra di visite entro la fine dell’anno.
Tratto per le foto e alla fine spunto una sessione di circa un’ora con cinque di loro vestiti di tutto punto per 300 dollari. Ci si sposta poi nel retro della casa, in pratica dopo 50 metri s’è già in piena foresta amazzonica, i ragazzi si dipingono il volto di rosso con le bacche di achiote, e si mettono le tradizionali collane a tracolla. Scatto qualche bella immagine, anche se mi rendo conto che gli anziani sarebbero ben altra cosa. Mimano alcuni atteggiamenti di caccia e utilizzano anche una stupenda cerbottana, lunga quasi quattro metri. I Matis sono famosi per cacciare con le cerbottane, soprattutto scimmie. Ormai in questa zona dell’Amazzonia sono rimasti gli unici, assieme agli Yagua, ad utilizzarle. Le cerbottane degli Yagua sono decisamente più corte, di norma lunghe un paio di metri.
Un Matis mentre usa una cerbottana
Terminate le foto pago anche il “traduttore”, con valuta colombiana: anche se si lamenta un po’ non ne ho altra, veda lui. Il giovane capo vuole cambiare il pezzo da 50 dollari che si è tenuto per sé, ma ad Atalaia non c’è una banca che lo faccia. Mi chiede quindi di accompagnarlo fino a Benjamin Costant. Non capisco perché necessiti della mia presenza: forse non si fida che le banconote siano buone. Insiste e alla fine lo accontento, risparmiandomi la spesa del taxi di ritorno ma tirando il pacco al ragazzo col quale avevo diviso il taxi all’andata.
Arriviamo a Benjamin Costant sulla sua Honda 150, ovviamente senza casco, cosa peraltro che gli consente di parlarmi, in portoghese per tutto il viaggio di circa una 40ina di km. Ciò nonostante qualcosa l’afferro: è il Responsabile dei Matis per la Salute e l’Educazione - cosa credibile, non credo siano tanti ad avere studiato fino oltre i 20 anni di età - e mi parla dei suoi progetti di attrarre turisti. Giunti a Benjamin Costant mentre fa miscela chiede al benzinaio se gli cambia i dollari. Il tipo dice di sì ma non sa quanto sia il cambio odierno. Lo chiede ad uno che si ferma anche lui per fare carburante, prende per buona la sua valutazione ed effettua la transazione.
Come se finora non ci avesse creduto, nel momento in cui ottiene delle banconote che riconosce, al Matis gli si stampa un sorriso da orecchia a orecchia, e ci vorrà un po’ per farglielo andare via. Ci salutiamo e si premura di lasciarmi il suo numero di cellulare e la sua mail. Già che c’è, mi mostra pure il suo passaporto indio: ogni appartenente ad una comunità india lo può avere, e grazie a quello passare tra un paese e l’altro senza altre formalità. Dico all’impiegato della cooperativa autisti di dire al punto taxi di Atalaia che non mi aspettino, ma non l’ha fatto nei dieci minuti che sono rimasto lì a salutare il Matis.
Prima di andarmene definitivamente glie lo ricordo, ma scommetterei che se n’è fregato altamente. Vado a prendere il biglietto per il primo Rapido che torni a Tabatinga: la giornata si è svolta in maniera tale che non ho avuto modo di cambiare e ho solo monete colombiane e insufficienti. Il biglietto costa 15.000 pesos, io ne ho solo 13.000. L’impiegato ci pensa un attimo e mi fa salire lo stesso, facendomi lo sconto. Mi sa che non è pratica così inconsueta: proprio mentre stiamo per salpare, visto che c’è ancora un posto libero, viene fatta salire un’autentica pantera inguainata in un attillatissimo body pitonato e traballante su un tacco 12. Per tutto il viaggio il comandante cerca palesemente di intortarla, immagino cercando di ottenere un pagamento in natura.
Sbarcato a Tabatinga non ho nemmeno gli spicci per un mototaxi e quindi mi faccio a piedi i chilometri necessari per tornare alla Policia Federal e poi rientrare a Leticia, se non ho altro ho modo per dare un’occhiata alla metà brasiliana di questa città di frontiera. Ho una gran sete, non vedo l’ora di arrivare a Leticia e guardo i cartelli delle strade sperando che le scritte passino da “Rua” (portoghese) a “Calle” (castigliano e quindi Perù). Le insegne dei negozi a volte sono spettacolari. Una profumeria riporta la seguente scritta, in caratteri cubitali: “Jesus é a razao de nossa vitoria”. Poveretto, oltre a tutti i peccati del mondo, pure delle sorti economiche di un negozio gli danno la colpa. Poi c’è il posto di blocco sulla strada, che è solo il simulacro di un confine visto che nessuno viene fermato. Io passo sul marciapiede, senza essere degnato di uno sguardo dalle guardie. Appena arrivo cambio un po’ di valuta e mi prendo una bibita gelata, che mi procura un piacere sfrenato.
La sera passo dal hostal delle ragazze per andare a cena e ritrovo Thomas, il ragazzo svizzero col quale avevo diviso il mototaxi all’arrivo a Leticia. Si è spostato in questo hostal perché più economico e centrale rispetto all’altro, che poi mi dice aveva fatto fatica trovare, nonostante la mappa memorizzata sullo smart phone. A differenza delle ragazze, non è uno che non sa ancora cosa fare nella vita: ha 38 anni e lavora come ingegnere presso un grosso studio ormai da tempo. Gli chiedo allora come fa ad essere in viaggio da un mese ed avere altri due mesi da fare. Mi spiega che lavorando parecchio, in media 10 ore al giorno, aveva bisogno di staccare un po’ la spina. Quindi ha detto al suo capo che voleva prendersi questi tre mesi e questi, valutato quanto tempo, ma soprattutto denaro, avrebbe perso per trovare un sostituto e per fargli imparare il lavoro, ha ritenuto più economico anticipargli le ferie e dargli un mese non retribuito. Uguale uguale a quello che succederebbe in Italia…
Mi racconta anche che in una rivista aveva letto di tale Hervé Neukomm, un suo conterraneo che ha costruito una canoa in cui la propulsione, invece che dai remi, è data da pale azionate dai pedali di una bicicletta. In pratica pedalando ha disceso un fiume che parte dall’Ecuador per circa 1400 chilometri: ecologico ed economico. L’ha contattato e ha fatto qualche giorno in canoa nella giungla con lui, assieme ad altri turisti (attualmente questa è la fonte di reddito del “pedalatore”). Mangiamo per strada, in una specie di bancarella che cucina all’aperto e ha qualche tavolo, pieno di locali. Non ho molta fame e prendo un’arepa, una specie di piccolo pane di forma circolare preparato con farina di mais bianco, con l’aggiunta di un po’ di formaggio. Deliziosa. Peccato solo che esploda un violento acquazzone, anche se le ragazze, che da quel che capisco non si sono schiodate da Leticia, inneggiano al fresco che porta. A fine serata saluto la combriccola internazionale, visto che domani dormirò altrove.
continua...
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto