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Amazzonia - X

Il diario di viaggio di un affascinante avventura nel cuore della foresta pluviale

 

...segue 

 

15 - No turisti, grazie

 

Colazione in pasticceria con una pasta che fatico a finire da quanto è impegnativa, e controllo la mail. Finalmente l’americano si è fatto vivo: mi dice che i Matis non gli hanno ancora risposto e quindi non mi rimane che andare ad Atalaia do Norte e di chiedere di un anziano di cui mi dà il nominativo. Poi mi dice che nei paraggi si possono visitare anche i Tikuna, e mi spiega come fare a raggiungere il villaggio di Nazareth, e mi consiglia di provare il canopy walking in un parco nei pressi di Leticia. Per avere più tempo possibile per raggiungere i Matis che sono i più lontani, oggi lo dedico a cercare il villaggio Tikuna che mi ha suggerito.

 

Prima di partire mi ero documentato e fra le poche fonti che avevo trovato sui Tikuna c’era un articolo in cui si parlava del fatto che i Tikuna di Nazareth non volevano più turisti in visita nel loro villaggio e che all’uopo avevano messo delle guardie al loro porticciolo per rimandarli indietro. A leggere bene però il motivo di questo comportamento non è l’odio verso i turisti, quanto il fatto che si sentivano sfruttati dalle agenzie che organizzano i tour “etnici” lasciando a loro solamente le briciole dei soldi richiesti ai turisti. Io invece ci arriverò a piedi. Prendo pertanto un mototaxi e mi faccio portare all’aeroporto di Leticia per ottenere il timbro di entrata nel paese e, appena prima, vedo la scritta “Nazareth” in fondo ad un cartello che in cima porta l’indicazione “Tapacara 175 km”. Perfetto.

 

La "strada" verso Nazareth - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Al ritorno chiedo al mototaxista di portarmi al km 18, da dove ci si può incamminare verso il villaggio di Nazareth. Inizialmente la strada è asfaltata normalmente, poi dopo una decina di chilometri si stringe parecchio al punto che quando incrociamo delle moto bisogna rallentare, e dopo un altro po’ la strada è costituita solo da due strette strisce di mattonelle cemento. Passarci in moto o in auto la cosa non presenterebbe soverchi problemi, ma essendo il mototaxi un mezzo a tre ruote, almeno una è sempre fuori dalle strisce e il terreno è decisamente pieno di buche quando va bene, di fangose pozzanghere quando va meno bene, al punto che in un paio di punti devo pure scendere perché il mezzo è in difficoltà.

 

Dopo qualche chilometro, finiscono anche le strisce e c’è solo un sentiero in terra e erba. Il mototaxista mi fa scendere e mi dice che da lì comincia il sentiero. Per fortuna c’è un negozietto, chiedo al commerciante come fare per raggiungere Nazareth e lui mi dice: “Sono circa 5 chilometri, in quella direzione” e indica un sentiero che si allontana dalla “strada principale” dopo aver ironizzato sul cartello che indicava “Tapacara 175 km”, come se qualcuno potesse pensare di coprire quella distanza a piedi visto che con altri mezzi non è possibile. Faccio per partire - il sentiero, almeno inizialmente, è bello largo, anche questo con le mattonelle di cemento - ma il tipo mi dice: “Non ci puoi arrivare da solo, ti perderesti. Hai bisogno di una guida”.

 

Chiama un tipo che passa in quel momento e gli chiede se è disposto ad accompagnarmici, dietro una piccola mancia. Accetta. Si chiama Mendez, è uno Yagua - un’etnia che pensavo non abitasse da queste parti ma più a nord, in territorio peruviano - e abita in un villaggio a qualche chilometro da lì. Era giunto fino alla strada per riprendere la sua mountain bike, che aveva lasciato qua alcuni giorni prima. Sono perfettamente organizzato - nello zaino ho macchine fotografiche, impermeabile, cappello, repellente e pure una zanzariera - ho una scorta d’acqua, una guida e il sentiero è in condizioni perfette: dovrebbe essere una passeggiata di salute. Pian piano però il sentiero perde le mattonelle, poi perde la terra battuta, poi perde anche le sembianze di sentiero, mentre Mendez ormai è più spesso con la mountain bike in spalla che a terra. Aveva maledettamente ragione il negoziante: fossi stato da solo a questo punto sarei tornato indietro per non perdermi.

 

Passiamo a fianco di una casa fuori dalla quale vi sono alcuni uomini intenti a riparare una canoa. Per andare oltre bisogna c’è un ponticello costituito da un tronco solitario, che s’inerpica su un blocco di cemento che sembra una chiusa, non così diverso da quello che a Buen Perù serviva per attraversare il fiumiciattolo. Mi faccio coraggio e lo attraverso. Poi attraversiamo piantagioni dove il sentiero semplicemente non c’è anche se poi ciclicamente si ritorna in un tratto di foresta dove c’è una specie di sentiero largo alcuni metri, completamente disboscato. Dopo un po’ capisco: Mendez sta seguendo i cavi della luce, che è stata portata al villaggio di Nazareth 18 anni fa, e il “vialone” nel quale stiamo camminando è la striscia di foresta che è stata abbattuta per piantare i pali della luce.

 

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Un'anziana Tikuna, non così contenta di essere fotografata - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Arriviamo a Nazareth e chiedo dell’anziano che secondo l’americano è il curaça, il capo villaggio. Ma la gente non capisce chi cerchi, pare che siano due con lo stesso nome nel villaggio e comunque il curaça al momento è un altro. Chiedo quindi di parlare con costui, solo che è impegnato in una riunione. L’aspetto, con le macchine fotografiche ancora chiuse nello zaino, nella piazzetta principale, costituita da un campo da basket con tribuna. Già solo per questo mi sono simpatici questi Tikuna. Giunge il curaça, ci stringiamo la mano e chiedo l’autorizzazione a visitare il villaggio e a scattare qualche foto. Mi dice che deve chiedere l’autorizzazione al Consiglio del villaggio. Dopo un quarto d’ora dice che sono autorizzato e mi chiede in cambio una piccola donazione per il villaggio.

 

Mi piazzo nelle tribune sotto la tettoia - il sole picchia come sempre - e poco dopo giunge il capovillaggio con un contenitore di polistirolo pieno di gelati confezionati che distribuisce a chiunque incontri, bambini e adulti, anche qui sulle tribune. Forte di questo, chiedo ad un paio di signore se posso scattare loro delle foto, ma sono visibilmente ritrose: non mi vietano di riprenderle ma tengono lo sguardo basso. Una, dopo uno scatto, mi fa il segno dei soldi. No, non mentre stai mangiando il gelato pagato dai miei soldi.

 

Cambio aria e vado a vedere cosa succede in quell’edificio dove pare si rivolga tutta l’attenzione. È il giorno della Prima Comunione - è domenica - per i ragazzini del villaggio. I ragazzi, maschi e femmine in abiti bianco tra i 10 e 13 anni, mangiano a sedere in una lunga tavolata centrale che va da un lato all’altro della stanza, gli adulti sono seduti ai lati della stanza, su sedie e panche. Entro cercando di essere discreto ma inevitabilmente tutti gli occhi mi piovono addosso. Mi siedo in un angolo dove trovo una sedia libera.

 

La signora che mi è a fianco mi chiede se ho chiesto il permesso. “Certo, me l’ha dato lui” e indico il capo villaggio per farle capire che lo conosco. Si avvicina un ragazzo, meno scontroso della signora, che mi fa le domande di rito e si mostra cordiale. Assieme a lui c’è anche un anziano col quale alla fine trovo più sintonia perché a me interessano le tradizioni antiche e lui è naturalmente più ferrato. Nel frattempo i festeggiati si sono alzati da tavola: adesso si sono seduti gli adulti e mangiano a loro volta. Anche a me viene portato un piatto con riso e non so cos’altro al quale rinuncio, mentre non posso rinunciare alla bevanda, una specie di acqua con dei pezzi di ananas. Ormai, ho bevuto e mangiato tutto quello che mi hanno offerto e non ho avuto problemi.

 

I Tikuna ora sono tutti vestiti con abiti moderni, le loro case non sono dissimili da quelle viste anche in Perù e gli aspetti tradizionali sono sempre più difficili da cogliere. Chiedo del pelazon, il nome col quale è conosciuta, fuori dalle comunità Tikuna, il complesso cerimoniale del passaggio d’età da ragazza a donna, al quale mi piacerebbe assistere. Quando una ragazza ha le prime mestruazioni, viene messa in una piccola stanza e non può vedere nessuno a parte le anziane del villaggio incaricate della sua educazione. Durante questo periodo, che può durare fino a 6 mesi, alla ragazza vengono insegnati la storia, i miti e gli eroi della tradizione Tikuna e viene istruita sulle sue future responsabilità in qualità di membro adulto della comunità. Quando verrà ritenuta pronta si terrà il pelazon, il rito di passaggio, in occasione di un periodo di luna piena.

 

La ragazza viene pitturata di nero su tutto il corpo con la tinta ottenuta dal frutto dell’albero huito, col simbolo del suo clan sul volto (non è permesso il matrimonio fa appartenenti allo stesso clan). Poi le vengono strappati tutti i capelli, da cui il nome pelazon, anche se ultimamente non di rado si usano le forbici. Il motivo di questo doloroso trattamento risiede nel fatto che rappresenta la terra, pulita dalle erbacce prima di essere seminata dall’uomo. Ma non è questo il momento più difficile della cerimonia, per le ragazze.

 

Il rito dura fino a quattro giorni, durante i quali praticamente non hanno la possibilità di dormire. Le ragazze, decorate da piume di airone, portano una corona che inizialmente le viene posta sugli occhi, impedendole di vedere. Così adornate ballano e cantano al ritmo della musica tradizionale - principalmente percussioni - e devono saltare ripetutamente sopra al fuoco, gesto che simboleggia le difficoltà che dovranno superare da adulte. Poi vengono portate al fiume insieme ad un bambino, dove entrambi vengono lavati e al termine di questa operazione la ragazza viene considerata un’adulta.

 

L’anziano col quale chiacchiero mi dice che al momento della mia visita non vi è nessuna ragazza che stia completando questo percorso - anche se per poterla vedere avrei dovuto capitare nei quattro giorni del pelazon - che però tale tradizione, benché abbia appena assistito ad una Prima Comunione cristiana, non è mai stata interrotta. Classico caso di sincretismo amazzonico.

 

L'agognata barca per il viaggio di ritorno - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

L'agognata barca per il viaggio di ritorno - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Faccio un giro nel villaggio, e vedo una bella maloca, diversa da quelle Matsés perché non chiusa da pareti ai lati. Non è abitata, è un luogo di attività comuni come raduni o feste. Sotto il suo tetto scambio un po’ di chiacchiere con due locali, di cui uno ne è stato il costruttore. L’altro è più chiacchierone e mi fa una testa tanta con rivendicazioni politiche di purissimo stampo indio, che rivelano la storica combattività del suo popolo.

 

Almeno riesco a strappargli qualche informazione: i turisti non vengono più portati al villaggio da agenzie turistiche, i pochi che arrivano, 3 o 4 all’anno, arrivano a piedi come ho fatto io; il villaggio è autosufficiente, vivono di quello che cacciano, pescano e coltivano e non hanno bisogno dei bianchi per sopravvivere; il nome pelazon non è un termine Tikuna, è stato affibbiato da altri e non lo gradiscono, loro lo chiamano “Festa della Pubertà”; a differenza di quanti potrebbero pensare che, per essere sottoposte ad un rito del genere, le donne non siano tenute in grande considerazione, nelle comunità Tikuna esse hanno spesso ruoli importanti.

 

Ormai è pomeriggio inoltrato e bisogna pensare a rientrare a Leticia. Di rifarmi il sentiero dell’andata per poi sperare che un mototaxi passi dal km 18 non ne ho una gran voglia, quindi dico a Mendez, che è sempre rimasto in disparte ma senza andarsene - benché gli avessi dato il compenso pattuito all’arrivo al villaggio ritenendo di non aver più bisogno di lui -, di tentare il più comodo rientro via barca.

 

Andiamo al “porticciolo”, che altro non è che un ripido argine sul Rio delle Amazzoni, per fermare la prima barca che va nella nostra direzione, tanto prima poi una passa. Invece no, quelle poche che passano vanno nell’altra direzione e le uniche due che vanno in quella giusta non caricano. Chiediamo ad uno che ha la barca lì vicino se ci può portare ma non ha benzina, dice. Sono ormai le 17:00, anche Mendez è stupito che ci sia così poco traffico sul fiume ma non rimane altro da fare che tornare a piedi, e già mi immagino come sarà fare il percorso a ritroso al buio e senza torcia elettrica.

 

Mentre stiamo attraversando il villaggio Mendez saluta uno e gli chiede se conosce qualcuno che può portarci a Leticia. “Vi ci porto io!” dice il tipo, quando ormai non ci speravo più. Ci vuole quasi un’ora prima che si parta: prima per una trattativa che mi vede in chiaro svantaggio e difatti il tipo non cala di un pesos dall’esosa cifra iniziale - anche Mendez mi dice che chiede tanto ma lui sa di avere il coltello dalla parte del manico -, poi deve recuperare il fuoribordo e trasportarlo fino alla canoa, infine ci mettiamo un quarto d’ora per imbarcare moglie e figli - immagino passeranno la serata a Leticia a mie spese - e uscire dal fiumiciattolo accanto al villaggio che funge da porticciolo, a causa la quantità di barche che vi sono ormeggiate e che bisogna spostare una ad una per venirne fuori.

 

Il viaggio di ritorno è più lungo di quanto pensassi e faccio in tempo a vedere un tramonto amazzonico saltuariamente rischiarato da lampi che giungono da tre direzioni diverse. Per fortuna non piove. Arriviamo a Leticia dove devo pagare in anticipo per poter fare carburante. Torno all’albergo, incontro per caso le due ragazze della sera prima e ci diamo appuntamento per cena. Stasera si è aggiunta Paola, una ragazza lombarda, anche lei in viaggio da sola: si sono conosciute nel hostal dove dormono, che finisce per diventare un posto dove le ragazze che non vogliono andare in giro da sole trovano altre con le quali fare gruppo. Vive e lavora Bruxelles, per un’ONG che si occupa di Tibet, visto che, tra le altre lingue, parla anche il cinese.

 

continua...

 

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Roberto

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