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14 – Rapidamente
Sveglia alle 4:50, preparo lo zaino che con i residui degli abiti comprati ad Iquitos è un po’ più pieno e gli spazi vanno un po’ ripensati. Saluto il portiere che dorme su una poltrona davanti alla porta e prendo il primo mototaxi che mi fa godere un po’ di piacevole frescura. Giunto al porto “El Huelito” non faccio in tempo a scendere che un ragazzino mi propone delle bibite, ben sapendo che il viaggio che sto per affrontare è lungo, anche se so che nel costo del biglietto sono compresi colazione e pranzo, come se fosse un volo. Ne prendo una, al sapore di guaranà: come da queste parti pare essere d’obbligo, è dolcissima e coloratissima, non a caso siamo nella terra d’elezione dell’Inka Cola. Operazioni d’imbarco piuttosto agili, sia perché - e non ne capisco il motivo - mi fanno passare davanti ad un gruppo di persone di colore e sia perché non mi pesano il bagaglio. L’addetto solleva il mio zaino, ne deduce che è ampiamente sotto ai 15 chili che costituiscono il limite oltre al quale si pagano 3 soles al chilo e lo butta in mezzo agli altri. Fino a quando non si parte il corridoio in mezzo ai sedili è tutto un via vai di uomini, donne e ragazzini che propongono qualsiasi genere alimentare: bibite, frutta, biscotti, leccalecca, pane, perfino delle noci di cocco con tanto di cannuccia, pronte per essere bevute. Vengono quasi ignorati poi quando gli addetti accendono il motore e i venditori sono invitati a scendere, immancabilmente tutti i passeggeri sembrano colti dall’improvvisa necessità di acquistare qualcosa. Si parte puntuali, alle 6:00, mentre la foschia che avvolge il Rio delle Amazzoni si sta facendo lentamente sconfiggere dal sole nascente. Il “Rapido” è una fast boat e quindi, specie per chi come me ha fretta, di gran lunga il mezzo più agile: in circa 8 ore - se scende, un paio d’ore in più se risale - arriva a Leticia, la cittadina colombiana costruita sul confine col Brasile (la parte brasiliana di quella che è in pratica la stessa città si chiama Tabatinga). In pratica è un motoscafo lungo e coperto. L’alternativa sono le slow boats, cioè imbarcazioni molto più grandi, a più piani, non così dissimili dai classici battelli del Mississippi - se si eccettua l’assenza della grande ruota a pale - ma anche molto più lente: per coprire lo stesso tragitto impiegano 3 giorni. Vi si può viaggiare in cabine oppure, se si vuole spendere poco, dormire all’ultimo piano dove vi sono le amache, un classico per backpackers con pochi soldi e molto tempo a disposizione. Nel sito della compagnia leggevo che il Rapido non fa soste durante il tragitto, tranne su richiesta di militari o autorità, ma mi pare una balla pietosa: di soste ne avremmo fatte 5/6 e solo una presso una stazione militare.
L'alba sul Rio delle Amazzoni - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Il viaggio, per quanto lungo, è piuttosto piacevole: l’imbarcazione è coperta e quindi il sole non è insopportabile, la navigazione è piuttosto veloce e quindi basta aprire un po’ i finestrini per avere aria fresca in quantità. Circa un’ora dopo la partenza portano la colazione, un panino igienicamente sigillato con del cellophan, con prosciutto cotto e formaggio, da bere caffelatte al quale rinuncio. Sarà il rumore monotono del motore, sarà la bella arietta, fatto sta che l’occhio scappa spesso, non solo a me, e mi stendo sul mio sedile, abbassabile come quello di un aereo. Metto pure i piedi fuori dal finestrino e mi sembra di tornare ragazzino quando facevo la stessa cosa tornando dal mare, sull’auto dei genitori. Mi svegliano solo gli improvvisi rallentamenti del comandante per affrontare con cautela i tratti in cui i tronchi, sradicati dalle piene, galleggiano sul fiume. Ce ne sono davvero tanti, mi chiedo quanti siano nel pieno del periodo delle piogge in aprile-giugno. Per fortuna il Rio delle Amazzoni è davvero vasto, anche così lontano dalla foce: a occhio e croce sarà largo sui 200 metri, e quindi un varco libero lo si trova sempre.
L'alba sul Rio delle Amazzoni - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Non avendo molto altro da fare squadro i compagni di viaggio. Davanti a me c’è una coppia con un bimbo che è un putto michelangiolesco in versione indio che mi sorride. Comprendo appieno le ragioni della sua felicità: si è appena staccato dal seno generoso di una giovanissima Venere india tascabile. Al suo fianco il marito: brizzolato, barba di qualche giorno, dai lineamenti sicuramente non indio direi caucasici piuttosto, in bermuda e canottiera sfoggia tatuaggi granguignoleschi, che mi ricordano l’espressionismo delle statue dei santi che dimorano negli altari barocchi delle chiese andine. In un braccio vi sono raffigurati due mani in preghiera con un rosario e la scritta “Maria, in ricordo di Teresa”; sull’altro una croce che sta bruciando e la scritta “Rodolfo, in ricordo di…”; sull’avambraccio il ritratto di un uomo anziano, coi baffi e un ciondolo al collo, forse il padre, forse un amato nonno; dietro, in mezzo alle spalle, un grande Cristo con la corona di spine ed un’espressione molto sofferente, con grosse lacrime e i nomi di Catalina e Jennifer. Pare un camposanto ambulante. È uno strano personaggio, non mi pare abbia niente a che spartire con gli altri passeggeri, siano essi indios o turisti. Influenzato dai racconti di gente che si nasconde a queste latitudini, finisco con l’immaginarmi che dopo una vita disseminata di violenza nella Legione Straniera o come narcotrafficante, ora abbia trovato la sua pace e si trastulla beatamente il piccolo, premuroso. Più probabilmente sono io che m’immagino le cose, anche senza bisogno di bere l’ayahuasca.
Viene servito l’abbondante pasto: pollo al curry con riso, patate e fagioli. L’unico problema è che il piatto è di quelli leggeri in alluminio e come lo si tocca col coltello o la forchetta lo si perfora più facilmente della difesa di una squadra di Zeman. Come bevanda la mitica Inka Cola: sembra di bere chewingum da tanto è dolce. C’è pure il dolce, una caramella mou di cortesia. Più tardi passano a distribuire acqua naturale, per chi la vuole, in sacchetti che bisogna rompere sulla punta coi denti per poi succhiarli. Giungiamo al porto di Santa Rosa, che essendo l’ultima località peruviana, è il porticciolo dove le imbarcazioni si fermano, anche se tutti i turisti giunti fin qui in realtà vanno a Leticia. Scendendo dal Rapido, faccio conoscenza con un ragazzo svizzero, una spagnola e un’australiana che erano sulla stessa barca e che come me devono attraversare l’invisibile frontiera. Il posto dove rilasciano i timbri dista un chilometro circa e divido il costo del mototaxi con lo svizzero. Le ragazze prendono quello successivo. Espletiamo le formalità e poi torniamo al porticciolo, per attraversare il fiume visto che Leticia è sulla sponda opposta. Nell’attraversare il fiume perdiamo di vista le ragazze, che sono salite su un’altra barca, e sbarco con Thomas. Io devo andare in un hotel preciso, quello dove, se ci riesce, l’americano mi manderà i Matis. Mi sembra che sia in Calle 2. Thomas invece aveva già memorizzato, sul suo smartphone, l’albergo dove voleva andare e ora, seguendo la mappa della città, lo va a cercare in Calle 7. Comodo. Ci separiamo, ognuno per la sua strada.
Canoa con motore fuoribordo: il mezzo di spostamento più usato nel bacino del Rio delle Amazzoni - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Procedo verso la Calle 2 anche se mi pare molto fuori mano: mi ritrovo in un quartiere decisamente popolare, al limite della baraccopoli, carico di entrambi gli zaini. Non sto facendo una fatica immane, anche se causa umidità sudo copiosamente. Chiedo indicazioni ad una signora, alla quale scappa un sorrisino, capendo che sono decisamente nel posto sbagliato. Alla fine era in Calle 8, centralissimo. Piazzo i bagagli in camera, doccia rivitalizzante e poi vado in un internet point per vedere se l’americano si è fatto vivo. Niente, comincio a pensare che dovrò arrangiarmi. Lancio un’ultima mail poi se i Matis non verranno da me, allora sarò io ad andare da loro, ad Atalaia do Norte, villaggio brasiliano misto. Poi da lì vedrò cosa riuscirò ad organizzare. Leticia è decisamente gradevole, più piccola e più vivibile di Iquitos, piena di ristorantini e negozi non solo per locali. Visito un negozio di souvenir molto grande, nella speranza di trovare qualche oggetto meno banale del solito. Niente che mi interessi acquistare, però riconosco, nel posto più nascosto del locale, delle maschere in terracotta che i Matis utilizzano per la cerimonia cosiddetta del Mariwin. Chiedo informazioni alla titolare del negozio, ha visto mai che mi metta in contatto con il suo fornitore Matis. ma non sa dirmi qualcosa che non so già, cioè di andare ad Atalaia do Norte.
Ceno nel ristorante a fianco dell’albergo, attirato dalla numerosa clientela locale. Poco dopo entrano nello stesso locale le due ragazze della barca, che chiedono se possono unirsi a me. Ci mancherebbe. Sono Jennifer, piccola mora spagnola che vive a Londra, e Pia, alta bionda australiana di Perth. Quando la conversazione finisce, inevitabilmente, su da quanto tempo si viaggia, so già come andrà a finire. Jen è stata un mese in Perù, ne farà almeno un altro in Colombia e poi deciderà il da farsi: non sa quando tornerà, nemmeno se tornerà. Pia invece, dopo aver finito gli studi e aver lavorato per un paio d’anni ha capito che non stava facendo quello che voleva ed è partita in viaggio. Dopo tre mesi in Sud America in compagnia del fidanzato, che ora è rientrato, ora ne farà altrettanti da sola, comprensivi di un mese di lavoro agricolo in una cooperativa colombiana. Anche lei non sa quando tornerà, anzi, dice che tornerà quando avrà capito cosa fare al ritorno. Io invece sono ormai nella seconda metà di un viaggio di appena 3 settimane e mi sento il classico vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro. Le ragazze stanne sul vegetariano, io invece mi concedo un lomo de cerdo empanado, decisamente sovradimensionato rispetto al mio appetito, per la gioia di un cagnolino che attende vigile ma astutamente silenzioso i miei “lanci”.
continua...
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto