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12 – Curandero
Dopo il diluvio occorso nottetempo, continuato fin dopo il sorgere del sole, oggi mi alzo senza speranze. Per colazione ci sono spaghetti e platano. Mi chiedono se ne voglio un po’, forse temendo che un italiano non avvallerebbe mai uno scempio del genere. Al mio sì, Hector commenta: “Roberto come todo”. Poi si sentono annunci, possibilisti sull’arrivo di voli in giornata. Figurati. Invece, dopo aver consultato il Tecnico, ci dicono di non disperare, sia perché basta qualche ora di sole cocente per asciugare la pista e sia perché corre voce che ad Iquitos vi siano sei madedeiros (gente che lavora nel settore del legname) che è ormai da giorni che, come me, aspettano di prendere quel volo e potrebbero noleggiare un idrovolante, stanchi di aspettare. Non l’avrei mai detto, ma mi sorprendo a fare il tifo per una multinazionale che sfrutta il legname dell’ultimo grande polmone verde della Terra. Ormai esasperato dall’attesa e dalla continua ridda di voci che creano aspettative puntualmente disattese, decido di approfittarne per telefonare a casa. Nelle botteghe vendono delle card telefoniche, però gli apparecchi ad Angamos non le accettano, vanno unicamente con le monete. Cambio una banconota in spicci e chiamo a casa per la prima volta, operazione tutto sommato abbastanza semplice e neanche troppo costosa, solo con un po’ di ritardo nel sonoro, dall’emporio nei pressi del quale staziona sempre il Tecnico.
Le nere acque del Rio Galvez - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Quando si appresta mezzogiorno all’altoparlante annunciano di recarsi al posto del check-in. Per terra è palesemente più bagnato che nei giorni precedenti: mi sembra di essere in balia di un burattinaio che si diverte alle mie spalle. La signorina del check-in annota i nostri nomi su un quaderno a quadretti - dopotutto decisamente più efficace del check-in automatico dell’aeroporto di Bologna sperimentato pochi giorni fa - e pesa il bagaglio, su una bilancia pesapersone. Poi ce ne torniamo a casa, lasciando lì i bagagli che non ci servono per la notte, in attesa di non si sa bene cosa. Poco dopo si fa vivo Antonio, che in passato aveva lavorato come guida con Hector, e figlio di Tumì, un esperto curandero amico di Hector - se non ho capito male era presso la sua maloca che prima Hector portava i viaggiatori - scomparso da un paio d’anni. Poi, successe che in un viaggio Antonio, sobillato da altri, ebbe qualche screzio con Hector e da allora, pur rimanendo in buoni rapporti, Hector non si serve più di lui. Hector ricorda quanto bravo fosse Tumì e quale prezioso patrimonio di conoscenze sia andato perduto con la sua scomparsa quando Antonio afferma, per la sorpresa di Hector, che invece molta della sua conoscenza delle piante medicinali della foresta è riuscita a trasmettergliela. Comincia quindi a raccontare i suoi progressi, in un castigliano ben comprensibile e insolitamente dal tono vivace. Specifico questa cosa perché, dopo una settimana passata in mezzo agli indios, mi sono ormai assuefatto alla cadenza dolente dei Matsés: sembra sempre che manchi loro il fiato per finire la frase, sempre assertivi, mai prevaricatori, anche se forse più che la pigrizia è il loro innato pudore a generare questo comportamento. Dei timidoni, che però non si facevano particolari problemi ad ammazzare dei villaggi interi… Sospettosi, timorosi di essere fregati, invidiosi gli uni degli altri, permalosi, come ho avuto modo di cogliere in qualche situazione: non è facile rapportarsi con loro.
Antonio no, non è timido. Racconta di aver salvato la vita a due donne che avevano un tumore al seno, di aver guarito un malato di AIDS facendogli bere un suo preparato e, vedendolo ancora vivo dopo 40 minuti di vomito continuo, aveva capito che sarebbe guarito. Nel giro di tre settimane le macchie che aveva sulla pelle cominciarono a regredire. Poi racconta che anche sua figlia era stata ricoverata in ospedale per una grave forma di epatite B (che può essere mortale) ma lui ha unito le sue conoscenze a quelle di un curandero Hivaro (o Shuar, un’altra etnia amazzonica, originaria dell’Ecuador), ha portato le erbe curative alla figlia in ospedale di nascosto dai medici poi, vedendo che in ospedale non riuscivano a curarla, l’ha portata a casa e con i suoi preparati l’ha guarita. Poi parte un po’ per la tangente, dicendo che la cura per l’AIDS, che aveva imparato mentre aiutava un altro curandero, non voleva farsela fregare dai medici occidentali, voleva escogitare una maniera per brevettarla e guadagnarci. Forse un modo di pensare un po’ venale, specie se si pensa a quanto bene potrebbe fare un ritrovato del genere se veramente efficace e all’usanza dei curanderos di farsi pagare poco o per niente, a dimostrazione che la mentalità occidentale ormai pervade anche questo angolo di mondo. Una volta i curanderos (o forse ancora oggi, almeno quelli old style) erano persone meno attaccate alle cose terrene. Non solo dovevano fare lunghissimi apprendistati, ma vivevano il loro rapporto con la foresta in maniera totale. Secondo i Matsés sono le piante a volersi svelare e non il curandero ad acquisire il potere di curare attraverso di esse, al punto che molti dormivano assieme alle piante come per compenetrarle, per poterne acquisire la maggiore conoscenza possibile durante i sogni. Vi è poi un complesso sistema di tabù, di piante che non possono essere associate ad altre: probabilmente si tratta di piante che se usate insieme possono dar luogo a pericolose interazioni, anche se la cosa viene presentata come un divieto imposto da uno spirito.
Bimbo Matsés a Colonia Angamos - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Hector gli fa dei grandi complimenti, ho l’impressione più per cortesia che per reale convinzione su quanto gli viene raccontato. Poi dopo che Antonio se n’è andato mi dirà che gli ha chiesto se gli poteva prestare dei soldi per poter permettere a suo figlio di proseguire gli studi. Più tardi, come da copione, si va in centro, a vedere la partitella. Stavolta il Tecnico non gioca, è a sedere a bordo campo. Lo salutiamo e poi Hector, che è una bella lenza, non resiste e gli fa quei complimenti che i giorni precedenti ipotizzavamo per scherzo, unitamente a qualche neanche troppo velata allusione al fatto che sarebbe ora di autorizzare un volo. Non può che sfondare una porta aperta: al momento è a bordo campo perché vittima di uno stiramento, ma quando finisce il suo turno ad Angamos torna ad Iquitos dove è titolare di una squadra “seria”. Ci dice anche di passare dopo le 20:00 al posto dove sta di solito - lo stesso negozio dal quale ho telefonato - perché verso quell’ora lo chiamano da Iquitos per dirgli che programmi hanno per il giorno seguente. Dopo ci concentriamo su una partita di pallavolo, uno spettacolo senz’altro più gradevole anche se non per motivi propriamente agonistici. Tornando verso casa, per ammazzare il tempo, decidiamo di andare a dare un’occhiata allo stato della pista. Qualche pozzanghera c’è ancora, non so quanto queste impediscano agli aerei di atterrare ma ci prefiggiamo, al ritorno, di fermarci al posto del Tecnico per dirgli che la pista è in buono stato, giusto per fare un altro po’ di lobbying. Quando passiamo da lì il Tecnico non c’è ma ha lasciato detto di farci sapere che è confermato che domani, finalmente, ci sarà un volo. Stavolta sarà un idrovolante, che anche se dovesse piovere non avrà problemi ad atterrare sul fiume. Sono euforico perché intravedo la luce alla fine del tunnel ma Hector mi dice di non cantare vittoria troppo presto, in Amazzonia è sempre possibile tutto e il contrario di tutto.
13 – Nascondiglio
Ancora una nottata fresca, ma almeno asciutta. L’altoparlante alle 6:00 di mattina dà l’agognato annuncio: i passeggeri che devono andare a Iquitos si preparino. Torniamo dal check-in e bisogna pesare di nuovo tutto il bagaglio, poi ci dicono di andare al porticciolo perché l’idrovolante atterrerà lì. Dopo un inizio di giornata nebbioso, è uscito un sole che spacca le pietre, si potrebbe decollare tranquillamente anche senza idrovolante. Se per qualche motivo non si parte neanche oggi faccio una strage. Con le mie valigie vado al porto, sono da solo. Gli altri, meglio di me usi ai ritmi amazzonici, verranno dopo. Passano i minuti, la gente si raccoglie, ci sono una mezza dozzina di passeggeri, a conferma che il velivolo non sarà lo stesso dell’andata. Passa anche il Tecnico, che forse percepisce la mia impazienza e mi butta lì un: “Arriverà verso le 9:00”. La gente aumenta sempre più, alla fine ci saranno alcune centinaia di persone, molte più di quelle alla pista al mio arrivo. Dev’essere un evento anche per loro. Alle 9:15 arriva anche il Tecnico, con una radio con la quale si sente coi piloti ma, essendo senza orologio, ogni 5 minuti chiede a Hector che ore sono. Quando ormai è a pochi minuti il Tecnico mi chiede, sfruttando lo zoom della mia macchina fotografica, di fotografare una cosa che galleggia sul fiume. Eseguo e gli mostro il risultato, ingrandendolo sul display: è un tronco, ma c’è solo quello e non costituisce un pericolo per l’atterraggio. Che squadra affiatata siamo diventati! Filmo l’atterraggio del velivolo e il Tecnico, mentre un aiuto pilota sta fissando l’idrovolante al piccolo molo, mi fa ampi gesti di scendere, unico al quale viene concesso il privilegio di avvicinarsi all’aereo. Mi presenta il pilota, un giovane aitante, al quale mostro il video che poi dovrò inviargli. Saluti a tutti, si caricano i bagagli - c’è chi si porta ad Iquitos un paio di caschi di banane, un’altra signora ha un paio di scatole di cartone dalle quali ogni tanto fuoriescono le teste di alcuni polli - e si sale. Il giovane di prima, in realtà un istruttore, presenta in maniera impeccabile il volo che stiamo per affrontare. Poi, essendo noi nei posti più vicini ai piloti, ci dirà che gli idrovolanti sono i più sicuri per volare in Amazzonia, ché uno straccio di fiume dove atterrare lo si trova sempre.
Rieccomi a Iquitos. Mi accoglie lo stesso caos di mototaxi e l’afa di una settimana fa ma almeno non ci sono i mortiferi mosquititos. Ritorno al hostal dove ritrovo un ventilatore ma, soprattutto, il bagaglio. Doccia paradisiaca. Ora posso adempiere ai quei preparativi che avrei dovuto fare in precedenza. Spruzzo un repellente antizanzare per abiti su tutti gli indumenti e li lascio “riposare” per un paio di ore: resiste per mese o fino a quattro lavaggi. Rientro finalmente in possesso di un repellente efficace: quando lo comprai mi dissero che era quello usato dall’esercito americano, con DEET al 30%, difatti quando me lo do per la prima mezz’ora mi brucia la gola. Anche il cellulare prende, e mando un sms che rivela la mia esistenza anche se mi costa 2€. Poi vado a controllare la mail per vedere se l’americano s’è fatto vivo ma non c’è nulla. Gli mando una mail per fargli sapere che sono in città e poco dopo mi risponde che ha provato a contattare i Matis ma non ha ricevuto risposte e mi chiede se sono disponibile ad incontrarlo. Gli do appuntamento verso le 20:00, presso un locale che dà sul malecon. Devo procurarmi il biglietto per il Rapido, la barca superveloce che porta a Leticia solcando il Rio delle Amazzoni. Cerco su google maps dove trovare i biglietti, seguo le istruzioni ma nel sito indicato ora c’è una banca. Poco male, ho comunque bisogno di cambiare. Torno quindi al Visitor Center e stavolta mi assiste Jesus, col quale avevo scambiato parecchie mail in precedenza: al momento è ancora impiegato presso il Visitor Center ma già da qualche tempo collabora, fuori orario, con Hector, in previsione di aprire un’agenzia viaggi più tradizionale, disponendo anche di un albergo che Jesus sta per aprire con la sua famiglia. Mi informa che il Rapido di domani è quello della Transtur - che si alterna con quelli della Golfinho, così quando una risale il fiume l’altra compagnia lo discende - il cui ufficio non è distante. 20 minuti dopo ho il biglietto in tasca.
Serpente d'acqua visto dall'idrovolante - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Ho appuntamento per cena con Hector, che sbarbato e coi capelli - li porta abbastanza lunghi, è proprio un argentino - puliti pare un altro. Anch’io sembro un altro, mi dice Hector, nonostante la ormai lunga barba che mantengo. Passiamo dall’animato malecon dove incontriamo, seduti ad un tavolino, due francesi che Hector mi presenta e che vivono a Iquitos ormai da anni. Il primo Hector lo saluta chiamandolo “General” e mi dirà poi che è stato, più precisamente, un colonnello della Legione Straniera, motivo per il quale Hector, sempre affascinato da storie di guerra come di caccia, gli tributa grande rispetto. L’altro pare più uno venuto a svernare al caldo e spendendo poco. A cena andiamo alla Rosa del Texas, un locale di proprietà di un americano sposato con una peruviana che propone, oltre ai piatti locali, cucina tex-mex, cosa di cui approfitto subito per cambiare un po’ sapori, ordinando dei tacos. Per chi vuole, ci sono anche piatti che rispettano la dieta dell’ayahuasca. Poco dopo si siede, nel tavolo a fianco del nostro, Roberto, un burbero colosso svizzero, ex-impiegato di banca, trasferitosi da una ventina d’anni e ormai piuttosto stropicciato dagli anni. Quando Hector mi presenta come italiano, comincia a scuotere la testa, lamentandosi di come sia impossibile vivere in Europa, troppe tasse da pagare. “È possibile – gli dico –, io ci vivo” e così stronco sul nascere una conversazione i cui presupposti mi paiono quasi offensivi, specie se provengono da uno che abitava nel paese che vince regolarmente le classifiche sulla qualità della vita anche grazie ricchezza generata dalla cinica raccolta dei soldi più sporchi del mondo.
Con questi ultimi esempi sotto gli occhi, non è difficile capire perché la nostra conversazione si sposti su coloro che vengono a nascondersi, per motivi più o meno leciti, a queste latitudini. Hector racconta di un amico di un suo amico, un argentino, che si era separato dalla moglie e al cui figlio il tribunale aveva imposto di stare con la madre, nonostante il figlio volesse stare con lui. Sapendo che in Argentina nessun tribunale avrebbe mai tolto un figlio alla madre, fuggì col figlio via terra dal paese e, dopo aver attraversato Paraguay e Brasile, si piazzò a Iquitos, dove visse indisturbato per una decina d’anni. Poi, forse dimenticandosi della sua condizione di fuggitivo e del fatto che era nelle liste dei ricercati dell’Interpol, un giorno fece un video per protestare contro una banca che a suo dire l’aveva truffato e lo mise su youtube. Lo presero pochi mesi dopo. A parte il finale surreale, la vicenda dimostra che in questa zona, dove tre frontiere si succedono nello spazio di pochi chilometri e i confini sono segnati da fiumi facilmente attraversabili in zone letteralmente spopolate, è molto facile far perdere le proprie tracce. Lo sapevano bene anche i criminali nazisti che alla fine del conflitto scelsero in gran numero di perdersi in queste zone. Io stesso in questo viaggio ho collezionato 5 timbri di ingresso solo perché mi sono presentato spontaneamente nei posti dove ottenerli: avrei potuto entrare in Colombia o in Brasile senza lasciare traccia del mio passaggio, sia all’andata che al ritorno.
Saluto Hector con la promessa di rivederci il giorno del mio volo di ritorno, anche perché mi deve dare le armi da portare in Italia che momentaneamente lascerò nel suo ufficio, e gli lascio una sporta con buona parte degli indumenti acquistati ad Iquitos da regalare ai ragazzi della spedizione. In attesa che si faccia l’ora di incontrare l’americano, mi tolgo un vezzo e vengo subito punito: mezza delle due palline del gelato che ho preso casca per terra prima ancora che esca dal locale. Finisco quello che resta, non indimenticabile, passeggiando sul malecon, molto animato anche stasera. Bancarelle, giostre, spettacoli di strada. C’è anche uno che ha disposto una ventina di scatole di cartone, a forma di casetta con tanto di porticina, una a fianco l’altra, a formare un grande cerchio. Poi vende delle cartelle coi numeri delle casette. Quando ha finito libera un coniglio bianco, il quale, dopo alcuni secondi di indecisione, va a nascondersi nella prima casetta che trova, facendo vincere chi ha comprato il numero posizionato sopra alla porticina che varca. Semplice ma davvero simpatico. Sono ormai le 20:00 e vado all’appuntamento convenuto ma dell’americano non c’è traccia. Aspetto un’oretta e poi torno al hostal, visto che domani, tanto per cambiare, mi aspetta un’altra levataccia: partenza alle 6:00 ma bisogna presentarsi al molo almeno mezz’ora prima.
continua...
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto