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7 – Storie di caccia e di spiriti
Stamane vado con Dennis, Canë e Graciela alla chacra, il campo ricavato, col metodo dello taglia e brucia dove una volta c’era la foresta. Vi sono yucca, banane, platani, mango, papaya, tabacco, mais e altre piante che non conosco. Canë raccoglie delle radici di yucca, che fritte non sono molto diverse dalle patate fritte. Poi con l’aiuto di Graciela carica sulla schiena un apparentemente pesante casco di platani che regge grazie ad una fascia vegetale che poggia sulla fronte. Graciela fa lo stesso con un altro casco. Non so se Dunu non si unisca a noi perché non ha ancora recuperato oppure perché lasci questi compiti alle mogli. Rientro alla maloca e, sapendo che mi piacciono le tradizioni, Canë ha rispolverato un antico gonnellino tradizionale fatto con fibre vegetali, adatto per delle ragazzine. Besol, che finora ho sempre visto con pantaloncini e t-shirts, l’indossa e si lascia fotografare. Dunu pare essere più in forma dei giorni precedenti oppure è solo la curiosità che lo muove: gli devono aver parlato delle fotocopie che tengo nello zaino e mi chiede se può vederle. Glie le do molto volentieri e con lui tutta la maloca se le guarda di nuovo, con la stessa curiosità della prima volta. Intanto cominciano i preparativi per la cerimonia del nu-nu, ovvero del tabacco. Alcune foglie di tabacco selvatico, raccolte poc’anzi nella chacra, vengono messe ad essiccare sul fuoco, e lo stesso viene fatto con la parte interna della corteccia di macambo, un albero della foresta. Normalmente le lascerebbero essiccare al sole ma ci vorrebbe troppo tempo (diversi giorni) quindi sia il tabacco che la corteccia vengono fatte essiccare vicino a delle braci.
Dennis mi porta nella foresta, a vedere le scimmie. Si spostano in gruppi, fanno abbastanza rumore perché muovono le foglie degli alberi sui quali si spostano ma stanno talmente in alto, sui 25/30 metri, che non sono una preda facile per nessuno, nemmeno per l’obiettivo della mia macchina fotografica. Mentre siamo in giro si sente un verso acuto, e io immagino sia la potente ugola di qualche uccello a produrlo. Invece è una raganella, minuscola, nera percorsa da un paio di strisce di un acceso giallo/verde e velenosa. Dennis la cattura per farmela fotografare e poi, una volta liberata, cerca di pulirsi bene le mani. Rientriamo alla maloca, il sole picchia come un ossesso e tutti stanno dentro. Ne approfitto per una seduta fotografica, sul bordo della bassa porta. Ancora una volta vogliono vedere le foto delle altre etnie: un successone. Stavolta Canë dice che si ricorda che la tribù dalla quale avevano rapito Dunu da piccolo aveva gli stessi ornamenti, inconfondibili, dei Matis. In pratica, grazie a quelle foto che mi sono portato dietro, Dunu ha scoperto a 65 anni a che popolo apparteneva prima del rapimento. La fortuna aiuta quelli che si documentano!
La rana legata per estrarne il veleno. Poi verrà liberata, indenne - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Stasera si porterà a termine la cerimonia del sapo, rimandata l’altro giorno perché l’anfibio aveva poco veleno da dare alla causa. Stavolta il veleno c’è - non so come se lo siano procurati - alcune sue gocce sono state appoggiate sopra un bastoncino di bambù e poi lasciate essiccare sopra al fuoco, un sistema che ne protrae l’efficacia per quasi un anno. Gli si lascia colare sopra un po’ di saliva per “attivarlo” e si procede con la fase finale della cerimonia. Perché la tossina abbia effetto, deve entrare in contatto con la pelle viva, pertanto al figlio dodicenne di Dunu e a Wagner vengono effettuati due “punti”: un bastoncino - piuttosto sottile, con gli adulti viene usato più grosso - viene messo a contatto con la brace e poi la punta viene appoggiata sul braccio per pochi secondi, sufficienti a far sì che, un paio di minuti dopo, il punto ustionato dal bastoncino si liberi della prima pelle. Agli adulti, talvolta anche alle donne, vengono praticati punti con bastoncini più grossi, fino ad un massimo di dodici, a gruppi di tre alla volta nelle braccia e sui lati del petto. Hector dice che una volta si fece fare otto “punti”. Poi il veleno attivato dalla saliva viene appoggiato sulla piccola ferita. Il figlio di Dunu appena terminata l’operazione corre al “bagno”, Wagner invece deve attendere qualche minuto prima di avvertire i primi effetti: evidentemente in questo caso non si è esagerato con le dosi. Nel giro di pochissimo - dipende da quanta tossina è stata assorbita - il corpo reagisce con vomito, improvviso aumento del battito cardiaco, incontinenza e spesso bava alla bocca. Dopo un periodo più o meno lungo di questi sintomi, si può cadere in uno stato di veglia e allucinazioni oppure di profondo sonno, a seconda di quanta sostanza è entrata in circolo. Chi ha sperimentato questa sostanza parla di una sensazione come se il corpo dovesse esplodere. C’è gente - anche bianchi che hanno sperimentato - che s’è trovata a fare cose inconsulte, come abbaiare o graffiare. Poi dopo un quarto d’ora il corpo si calma ed, esausti, ci si addormenta. Al risveglio ci si sente un essere soprannaturale: si vede nel buio senza sforzo, si ha una forza mai avuta prima, si può correre per ore nella foresta senza stancarsi o restare senza mangiare per alcuni giorni. Si vedono gli animali prima che loro vedano te e si capisce istintivamente quali piante sono buone e quali non lo sono. Per i Matsés è come se il sapo avesse messo il “ritmo della foresta nel sangue”. Questa sostanza viene usata dai Matsés da secoli e solo negli ultimissimi decenni si è manifestato un certo interesse da parte degli scienziati occidentali. Dai primi studi pare sia efficace nella cura dell’Alzheimer, del morbo di Parkinson e nei casi di depressione acuta, malattie di cui però i Matsés ignorano l’esistenza. Loro, oltre che per migliorare le capacità venatorie, lo danno anche ai pigri, convinti che li farà diventare dei lavoratori, oppure lo assumono, bambini compresi, prima di lunghi trasferimenti o prove impegnative. Rinforza i malati, procura l’erezione ai vecchi, usato sulla vagina può provocare l’aborto oppure accelerare un parto. Una vera panacea.
L'apertura di un "punto" per veicolare il veleno della rana nel corpo - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Si fa buio e ci si ritira per la cena. Stasera è prevista un po’ di caccia notturna e quindi ceniamo più tardi rispetto agli anziani, che poi vanno a letto. Poco dopo la fine del nostro pasto serale comincia un violento acquazzone, che si protrae, sconsigliando quindi il progetto iniziale. Niente uscita notturna, niente storie al lume di candela perché Dunu e Canë non ci hanno aspettati, Dennis e Hector cominciano a raccontarsi storie di caccia. Dapprima si parla di quali le prede più grosse catturate, poi le più strane, fino a quando, pian piano, come se a guidare la discussione ci fosse una mano invisibile, i racconti assumono risvolti sempre più fantastici: la foresta amazzonica, luogo dove può succedere tutto e il contrario di tutto, è un sipario ideale per questi racconti, dove non sai mai quando finisce la realtà e dove inizia la superstizione. Si parla di animali dalla dubbia esistenza come il formichiere d’acqua, come il sachamama, un improbabile boa nero peloso e con le orecchie che vive su una lupuna. Dennis racconta alcune sue disavventure e si vede che è sincero ma le credenze indigene e l’oggettiva insicurezza che infonde un ambiente come la foresta amazzonica finiscono col fargli ritenere inspiegabili, e quindi frutto dell’opera degli spiriti, quelle che potrebbero essere semplici coincidenze. Già, gli spiriti, i chuyachaque. A volte si dice che si distinguono dal fatto che hanno due gambe non umane, una corta e l’altra lunga, altre volte si dice che non siano visibili all’occhio umano, ma che possono ingannarti, facendoti credere delle cose non vere. Possono farti sbagliare il sentiero. Come quella volta che ad Armando - a raccontare è Dennis - veterano della giungla che non teme nemmeno il giaguaro, sembrò di impazzire: era a caccia di sahinos (cinghiali selvatici) col suo cane e stava cercando di ritornare all’accampamento ma finiva col passare sempre nello stesso posto, rivedeva sempre gli stessi alberi, gli stessi punti dov’era passato poco prima e dove ormai stava passando da ore e ore, nonostante cercasse ogni volta di stare attento a prendere la direzione giusta. Lo trovarono Dennis e sua moglie mentre stava vagando a poche centinaia di metri dalla meta, mentre ormai stava disperando di ritrovare la strada. Dennis racconta di quella volta che con sua moglie Esther era nella foresta e sentiva dei passi sempre più vicini, si voltava ma non vedeva nessuno, fino a quando non si mise a correre all’impazzata, avendo l’impressione di essere inseguito da un maquisapa, una scimmia-ragno. Ma per quanto si voltasse all’improvviso quando sentiva i passi ormai vicinissimi, non vedeva mai nulla. Sempre Dennis narra di quella volta che era a caccia di sahinos, ed era appostato col fucile dove suo padre li stava spingendo. Sparò e colpì i primi tre che passarono, il quarto gli passò troppo vicino per poterlo mettere nel mirino quindi lo lasciò passare. Quando si girò per colpirlo, ad una ventina di metri da lui, vide gli occhi di qualcosa di grande, forse un giaguaro, catturarlo. Sparò subito in quella direzione, una, due volte, sicuro di non averlo potuto mancare. Ma non trovò nulla, né l’animale, né il sahino, né alcuna impronta.
Canë mentre prepara una stuoia con le foglie di una palma - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Anche Hector, ha un racconto da fare. Proprio lui, che rifugge da qualsiasi superstizione e ha sempre una spiegazione scientifica o psicologica per ogni storia india. Racconta di quella volta che, stava portando nella foresta un gruppo di turisti, avevano appena messo le tende quando si ricordò di aver dimenticato qualcosa poco più indietro, forse un machete. Tornò indietro per recuperarlo e, a scanso di equivoci, da bravo esploratore della giungla, tornando indietro segnò il suo percorso come si usa in questi casi, spezzando dei rami sulla destra del sentiero - per distinguere l’andata dal ritorno - e piegandoli nella direzione da cui era venuto. Ritrovato l’oggetto dimenticato, prese la strada del ritorno ma, ad un certo punto si rese conto di essere in una zona che non aveva percorso in precedenza. Tornò indietro e seguì di nuovo i segnali, ritrovandosi di nuovo nello stesso punto di prima. Ritornò indietro un’altra volta e controllò i segnali uno ad uno, fino a quando non ne trovò uno che indicava la direzione opposta a quella giusta, come se qualcuno l’avesse modificato di proposito. Seppe tornare all’accampamento ma non capì mai come questo potesse essere successo.
Intanto fuori piove che Dio la manda, con tanto di sporadici ma fragorosi tuoni che danno quel tocco da film horror che ci sta proprio a pennello. Come se il raccontare queste storie servisse ad esorcizzarle, oppure perché il coraggio viene nel raccontarle, man mano i racconti diventano sempre più incredibili, sempre più inquietanti. Dapprima Dennis racconta di quando suo padre trovò uno spiazzo circolare senza alberi dove c’era un enorme mucchio di pelli, di animali diversi, addirittura delle corna e delle teste mozzate di netto, come con un colpo secco di machete. Nessun animale conosciuto faceva cose del genere e quella non era certo zona abitata. Poi si racconta del padre di Rafa, il marito di Lidia, che diceva sempre che lui agli spiriti non ci credeva, anche in maniera sbruffona. Un giorno uscì per andare a caccia ma non tornò la sera, come faceva sempre. Tornò solo tre giorni dopo, con gli occhi sbarrati e profondi graffi dappertutto. Aveva con sé sia il fucile che le prede che aveva catturato. Raccontò di essere stato colpito alla nuca mentre si trovava nel cuore della foresta. Nonostante fosse svenuto, o forse se l’era sognato, sentì le foglie muoversi e gli parve di vedere come degli esseri piccoli, quasi dei bambini, che gli giravano intorno e dicevano di volerlo uccidere. Per sua fortuna uno di loro convinse gli altri a lasciarlo vivere, che proprio lui che aveva sempre preso in giro gli spiriti avrebbe cambiato idea. Si svegliò a poca distanza dal villaggio, e si trovò sfregiato dappertutto, come se fosse stato trascinato nella foresta per chilometri. Ora ha una paura fottuta degli spiriti.
continua...
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto