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13 - Tappone dolomitico
L'unica cosa positiva dell'albergo è che è attaccato al mercato e così la mattina dopo, alzandomi per tempo, riesco a farci un salto, trovandovi oltre alle H'mong Bianche viste all'andata, delle Giay e delle Dao. Ormai da qualche giorno dò buca al pilota al momento della colazione: a casa mia sono abituato ad iniziare la giornata con tè, miele e biscotti e non ce la faccio proprio a sostituirli con i forti sapori vietnamiti. Anche oggi gli lascio scegliere dove fare colazione e poi, quando vedo che la scelta è ristretta alla stessa solita roba di pranzo e cena, gli butto lì un "Ci vediamo dopo" e vado a comprare qualcosa di più affrontabile in un negozietto, di norma una bottiglietta di tè zuccherato e qualche dolcetto confezionato. Neanche a farlo apposta, come esco incontro la Lo Lo con la quale il pilota si è scambiato il numero di cellulare, la saluto con un cenno e lei risponde: pare stia aspettando il bus, che lì, vicino al mercato, fa fermata. Quando rivedo il pilota gli dico che l'ho vista ma non batte ciglio. Poco dopo le torna in mente la ragazza (si vede che a livello subliminale il messaggio è arrivato con un po' di ritardo) e dice che avevamo perso un'occasione e allora sbotto: "Ma se ti ho detto 5 minuti fa che l'ho vista qui davanti ad aspettare l'autobus...". Non so più se sia un pataccaro, se non capisca quello che gli dico o se semplicemente non mi ascolti.
Comunque abbiamo stabilito che oggi sarà un tappone dolimitico (ce n'è sempre uno in ogni viaggio): tanti chilometri e poche soste per ritornare il prima possibile nella zona dove iniziammo il viaggio, possibilmente pernottando a Pho Rang per poi proseguire il giorno dopo fino a Lao Cai, dice il pilota. Non sono per niente d'accordo sulla tappa dell'indomani, troppo breve, ma avremo modo di discuterne. Le soste sono poche ma una, in un vasto mercato rurale nei pressi di Quan Ba, merita davvero. Vi trovo la solita marea di H'mong Bianche, che davanti e dietro alla gonna vera e propria o ai pantaloni, portano una specie di prolungamento della camicia, come negli ao dai tipici dell'abbigliamento femminile vietnamita, di colore blu con una fascia centrale nera, delle Nung, delle Giay e delle Dao nell'ennesima variante locale, queste notevoli per gli argenti appesi al collo e delle vezzose catenelle che terminano tutte con una piccola chiave agganciate alla cintola, anch'essa decorata con metallo.
Da Yen Minh fino ad Ha Giang la strada è la stessa dell'andata e quindi più che altro pensiamo ad accelerare il passo. Sosta per il pranzo nello stesso ristorante dove mangiammo all'andata: o il pilota becca la commissione (e io che non avevo mangiato benissimo all'andata stavolta salto il pasto, nonostante il pilota ordini ugualmente portate per due) o non ha molta voglia di sperimentare posti nuovi. Da Ha Giang cambiamo strada rispetto all'andata: direzione sud, sulla strada più larga e veloce che porta a Pho Rang, una strada che presto scende dalle montagne ed è più retta e piana di quelle alle quali ormai sono abituato.
Una giovane Dao Rossa con una vistosa "sciarpa" gialla, Sapa - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
L'unico diversivo è dato dal terzo stop che ci intima una pattuglia di poliziotti: solo che stavolta la multa non è la solita già comminata un paio di volte in precedenza, ma una, molto più salata, per eccesso di velocità. Il trio di poliziotti contesta al pilota di aver viaggiato ai 54 km/h in un tratto in cui la velocità consentita era inferiore. "Inferiore di quanto?" chiedo io. "Boh, 35 o 40 km/h" replica il pilota "I segnali non li mettono così possono sostenere quello che più gli fa comodo". In effetti non ricordo di aver mai visto un segnale col limite di velocità. Il pilota mi spiegherà in seguito che anche il lavoro di poliziotto stradale, come il poliziotto di confine, è più remunerativo per i "benefit" che per lo stipendio in sé. In pratica fermano tutti i mezzi che passano, tanto in un modo o in un altro trovano sempre qualcosa che non va. Poi, come da regolamento, ti dovrebbero sequestrare il mezzo per cinque giorni, darti la multa e tu potresti andare a ritirare il mezzo alla scadenza dei cinque giorni con la ricevuta del pagamento effettuata allo Stato. Ovviamente nessuno o quasi, men che meno il pilota di un mezzo sul quale viaggia un turista, può permettersi di aspettare un lasso di tempo del genere e immancabilmente lo sfortunato del caso deve cercare di commuovere gli "inflessibili" tutori dell'ordine dicendo che purtroppo non può aspettare e supplicarlo di non sequestrargli il mezzo. Allora il poliziotto, fingendosi commosso dal caso disperato che gli è appena stato sottoposto, dirà più o meno: "Guarda, lo faccio solo perché sei te. Io non ti sequestro il mezzo ma la multa va pagata subito. Ovviamente non posso rilasciarti la contravvenzione, sennò dovrei poi sequestrarti il mezzo". È per questo che, soprattutto le minoranze etniche delle montagne che spesso non hanno l'istruzione minima per provare ad ottenere la patente di guida coi normali mezzi, li odiano e li evitano come la peste, al punto da avvisarsi telefonicamente l'un l'altro delle postazioni dei poliziotti e arrivando perfino ad abbandonare la moto in un fosso, preferendo tornare a piedi piuttosto che pagare le multe. Che in Vietnam la corruzione degli ufficiali sia una piaga non lo dice solo il pilota, ma anche l'ONG Trasparency che lo classifica al 112° posto al mondo.
Giungiamo a destinazione verso le 15:00, entrambi abbastanza cotti dopo le tante ore di motocicletta, ma io sono soddisfatto perché ci siamo avvicinati parecchio e spero, il giorno dopo, di poter arrivare a Lai Chau, da dove l'indomani partire per Sin Ho dove, non essendoci alberghi, non è possibile pernottare. Dopo la doccia che mi toglie un po' del mal di schiena che la lunga giornata in sella mi aveva procurato, comunico le mie intenzioni al pilota che forse si aspettava i complimenti per la sgobbata odierna e invece si vede consegnare la richiesta di un'ulteriore sfacchinata il giorno dopo. Esplode tutta la sua rabbia, mi urla: "Sono un pilota, non un bufalo!", mi dice che un'altra tirata così non ha intenzione di farla e chiama il t.o. col quale si sfoga e, me lo posso immaginare, dirà cose poco tenere nei miei confronti. Ma io non perdo il controllo e, mentre lui sbraita al telefono, faccio un paio di conti: stasera è giovedì, se domani fossimo a Lai Chau e il giorno seguente a Sin Ho saremmo in anticipo di un giorno rispetto al giorno di mercato che è la domenica. Fingo quindi di scendere a patti: non pretendo più di essere a Lai Chau per domani sera ma almeno a Sapa (e non a Lao Cai che dista appena 90 km di strada pianeggiante). Poi Sapa è anche casa sua, non vedo perché dovrebbe opporre resistenza. Si trova l'accordo, ma che fatica: capisco che anche il pilota è un lavoratore ed ha diritto al suo riposo (se non altro per non addormentarsi mentre guida con me sopra), però mi pare anche che quando ci fosse l'opportunità di accorciare la giornata lavorativa l'abbia sempre colta al volo e io non glie abbia mai rinfacciato (tranne in un'occasione), per una volta che c'è bisogno di alzare un po' i ritmi speravo di non dover sudare sette camicie.
14 - Morte nel pomeriggio
Giornata di tutto riposo. Partiamo presto, anche perché la sera prima il pilota non poteva certo fare tardissimo dopo aver detto di essere distrutto dalla fatica, e nonostante una breve pausa presso un mercato non molto grande trovato durante il percorso, giungiamo a Sapa poco dopo l'una, come sapevo perfettamente che avremmo potuto fare senza particolari sgobbate. Lo lascio andare a pranzare con sua moglie con la promessa, però, che poi nel primo pomeriggio andremo a visitare qualche villaggio nei dintorni visto che la zona la conosce molto bene. Verso le due partiamo per il villaggio di Ta Phin, abitato dai Dao Rossi, sulla strada per il quale si dovrebbe attraversare un villaggio degli H'mong Neri, entrambe etnie che avevamo visto molto velocemente all'andata ma che volevo gustare meglio.
Come arriviamo nella zona H'mong, si nota qualcosa di strano: c'è una moltitudine di gente che affolla una collina e ai suoi piedi una moltitudine di motociclette. Ci avviciniamo e veniamo a sapere che in cima alla collina c'è una casa dove si tiene un funerale. Non so se la mia presenza possa essere gradita o dare fastidio ma il pilota dice che non ci sono problemi, basta non fare fotografie. Ci avviciniamo all'abitazione: il suo interno e il suo cortile sono stracolmi di gente, ci saranno alcune centinaia fra uomini e donne tutti rigorosamente in abito tradizionale (un'abitudine che gli uomini degli H'mong Neri sono fra i pochissimi a mantenere viva). Mi fanno cenno di entrare in casa e sembra di entrare in un girone dantesco. L'ambiente è buio e fumoso, c'è una moltitudine di persone accalcate: nella stanza centrale c'è uno che suona un tamburo e canta una nenia come se fosse in trance, tutto intorno a lui è pieno di gente, chi sta fermo in piedi e chi si sposta da una stanza all'altra. Nelle stanze laterali c'è chi beve vino di riso, che mi viene offerto più di una volta, chi sta seduto e chi sembra dormire. Non sapendo bene cosa fare per non infrangere nessun tabù sono un po' imbalsamato, poi mi viene incontro uno, che intuisco poter essere il figlio del defunto, che mi prende per mano e mi porta a vedere la bara. Durante tutto il percorso costui mi sorride, quasi fosse un lieto evento. Meno lieta è però la moglie, che piange disperata e in preda a singhiozzi sulla bara. In realtà, moglie a parte, pare quasi una festa: il figlio, ridendo, mi offre un bicchierozzo di riso di vino e stavolta non posso proprio rifiutarmi. Molti dei convenuti quando mi vedono mi vogliono stringere la mano e quando esco mi rendo conto che, a forza di contraccambiare il gesto, la mia mano destra ha preso la stessa colorazione bluastra che hanno le mani e le braccia degli H'mong, che devono questo colore al fatto che indossano abiti tinti con l'indaco non fissati. È una situazione davvero speciale, che mi rimane particolarmente impressa forse anche perché, sapendo di non poterlo fare con la macchina fotografica, respiro tutta questa strana atmosfera a pieni polmoni per imprimerla nella memoria.
Le montagne intorno a Sapa - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Poi ci rechiamo al villaggio di Ta Phin, al cui ingresso devo pagare 20.000 dong. Come scendo dalla moto, 3/4 donne si materializzano e cominciano a tempestarmi di domande. È chiaro fin da subito che è una tattica per "adottarmi" e conseguentemente accompagnarmi per tutta la visita al villaggio, per poi cercare di spingermi all'acquisto di qualche souvenir. La metto allora sullo scherzo: le distraggo attirando la loro attenzione da una parte e poi andando dall'altra, quando mi affiancano mi lascio superare e poi torno indietro, rispondo in maniera non credibile ai loro tentativi di attaccare bottone e altri trucchetti infantili simili. Lì per lì se la ridono, ma dopo un po' capiscono che, piuttosto che provare a scalfire quello che si palesa fin da subito come il detentore di un tasso di ignoranza altissimo, è meglio concentrare i loro sforzi sui gruppetti di turisti che arrivano, se non altro per il fatto che su una decina di persone è impossibile che non ce ne siano di più malleabili. Mi ritrovo così ad attraversare il villaggio in splendida solitudine mentre gli altri turisti sono attorniati da un numero sempre almeno doppio di donnine che propongono i loro oggetti. Solo da un gruppo di bimbi mi lascio avvicinare, e gioco a far finta di prenderli, non diversamente da come faccio a casa con le mie nipotine. Certo qui non si può dire che sia un posto vergine al turismo, però è anche comprensibile una certa insistenza da parte delle minoranze etniche: da un lato la vendita dei souvenir è spesso uno dei pochi mezzi di sostentamento sul quale possono contare, dall'altro non di rado ho visto dei turisti chiacchierare amabilmente con le venditrici di souvenir, semplicemente contenti di essere attorniati dalle colorate, loquaci e spesso pure simpatiche, donne delle minoranze etniche.
Tornati a Sapa e dato il rompete le righe al pilota, ciondolo per il mercato di Sapa che, in quanto capitale turistica della zona, è sempre piuttosto attivo in qualsiasi giornata: nella zona dedicata agli abiti tradizionali addocchio un bell'abito Dao con relativo copricapo e comincio la trattativa con la donnina. Già intenzionato a non comprare se non all'ultimo giorno per non dovermi scarrozzare l'acquisto, faccio capire alla donnina che tornerò in seguito per controllare se i prezzi calano.
A cena, un po' per cambiare sapori ma soprattutto per preservare i contanti che stanno finendo più velocemente di quanto pensassi, voglio mangiare in un locale che accetti la carta di credito, in modo da preservare un po' di banconote. Entriamo in un ristorante decisamente rivolto ai turisti e specifico che voglio pagare con carta di credito (in teoria non dovrei nemmeno farlo ma darlo per scontato, essendo appiccicata sulla porta d'ingresso la placca della MasterCard): ma mi dicono non funzionare. Mi spiace per loro (e spiace anche al pilota che pare essere un loro amico), e mi reco al ristorante a fianco. Mi garantiscono che non ci saranno problemi: ordiniamo (io mi gusto una deliziosa zuppa di zucca e del più ordinario - ma dopo giorni di riso in bianco e pezzi di carne fritta mi pare sublime - riso saltato), mangiamo e quando vado per pagare, nonostante i diversi tentativi, la carta non viene accettata e mi tocca di mettere mano ugualmente al portafoglio. Il cameriere del locale abbandonato in precedenza ci vede uscire e chiede al pilota se ho pagato con la carta. Gli risponde: "Ci ha provato". Mi porta poi al suo locale, un bar un po' male in arnese nella zona del mercato dove viene sparata musica techno a volume altissimo ma è vuoto, tranne un paio di ragazze che si stanno fumando una canna al piano di sopra, che è all'aperto. Dopo un po' saluto la compagnia e mi reco al mio hotel che ha il vantaggio di essere comodo per andare nella piazza principale e ciò nonostante dislocato in una zona riparata dal trambusto.
Giovane H'mong Bianca - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
15 - La mamma è sempre la mamma
Oggi dobbiamo raggiungere Lai Chau: la distanza non è enorme e la cosa, combinata col fatto che già abbiamo attraversato questa zona in precedenza e che quindi non avrò bisogno di molte soste fotografiche, mi permette di dedicare qualche ora al mercato di Sapa il cui giorno più frequentato è la domenica ma, poiché i turisti di norma ci passano almeno il weekend, già al sabato vede molte minoranze etniche recarvicisi.
È un mercato decisamente atipico quello di Sapa: mentre negli altri mercati i locali, fondamentalmente, vanno al mercato ed eventualmente ci trovano dei turisti, qui invece il mercato vero e proprio è meno trafficato perché molte delle minoranze etniche che puntano a vendere i propri souvenirs ai turisti si dislocano sulla grande piazza (nella quale però non potrebbero esporre e difatti ho visto le donnine costrette a rimuovere tutto sotto i richiami di alcuni vigili), o nei marciapiedi che la circondano. Le tecniche di marketing delle donnine qui sono più aggressive che altrove: appena si incrocia lo sguardo con una di loro (ma spesso anche senza questo implicito invito) ecco partire il "buy something from me". A volte possono essere piuttosto insistenti: ho visto alcuni indecisi turisti essere letteralmente circondati, ma probabilmente perché hanno fatto capire che volevano comprare e poi hanno cambiato idea, generando il tentativo di "convincimento". Basta un minimo di fermezza per non aver problemi. Poi le minoranze etniche qui sono tra le più belle ed è anche comprensibile che molti si limitino a visitare Sapa e dintorni: dalle onnipresenti H'mong Nere che sono, almeno ai miei occhi, la "minoranza per eccellenza" anche per il loro passato bellicoso nei confronti dei Vietnamiti; alle spettacolari Dao Rosse dai voluminosi copricapi rossi (alcuni, composti da più stoffe cucite assieme, indossati a mo' di corna; altri, ricavati da stoffe a motivi floreali, a formare dei coni) che le rendono delle presenze quasi irreali; dalle meno caratteristiche H'mong che non tutti distinguono dalle Nere alle H'mong Floreali, alle Giay ma anche ad etnie meno facili da incontrare come le Lu.
Gli acquisti qualitativamente più significativi si possono fare al mercato, nella zona dedicata all'abbigliamento delle minoranze etniche. Nella maggior parte dei casi gli articoli proposti sui marciapiedi sono souvenir di bassa qualità, tipo cappellini o pochette con motivi tradizionali ricamati mentre attendono qualche cliente, e la tattica delle venditrici pare basarsi più sull'economicità dell'articolo che sulla sua bellezza, cosa peraltro comprensibilissima visto che la maggior parte della gente compra proprio quelle cose lì, ignorando i capolavori di abilità, ovviamente più cari e "impegnativi", che si possono trovare con più calma dove segnalato in precedenza. Ovviamente, essendo Sapa città turistica, vi sono anche molti negozi per turisti, dove vengono proposti articoli un po' più ricercati a prezzi piuttosto alti assieme ad articoli di gusto occidentale (tipo le tovaglie americane) resi "etnici" attraverso le decorazioni.
Come stabilito alle 9:00 si parte per Lai Chau, stavolta però con uno zaino leggero in previsione di un'unica notte fuori prima del rientro a Sa Pa, dopo essere finalmente riuscito a prendere un po' di ossigeno, sottoforma di banconote stirate, da un distributore di contanti. La strada è la stessa dell'andata, tra l'altro già percorsa in un direzione e nell'altra, eppure passare al passo Trom Ton continua a lasciarmi senza fiato: mi verrebbe da dare la pacca sulla spalla al pilota (il segnale per chiedere una sosta per fare una foto) ma mi trattengo perché l'ho già ampiamente fotografate in precedenza. A Binh Lu non è giorno di mercato ma c'è abbastanza gente in giro e rivedo quelle Dao dallo strano copricapo. Grazie al libro che all'andata non avevo, ora le posso identificare con precisione: sono delle Dao Dau Bang, un sottogruppo delle Dao Nere e il copricapo che portano in testa, di norma d'argento, viene chiamato "corona celeste". Ora un esemplare di queste corone, voluminosa capigliatura cerata compresa, alloggia al mio stesso indirizzo. Al mercato vedo passare anche una Lu, la prima che vedo con l'abito tradizionale e delle H'mong Bianche e Floreali, alcune con voluminose capigliature posticce coperte da colorati foulard che mi fanno presagire quelle delle H'mong Rosse che voglio vedere a tutti i costi. La zona meriterebbe una visita più approfondita.
Siamo comunque in pari rispetto alla tabella di marcia e quindi c'è tempo anche per una visita ad un villaggio Giay, su suggerimento del pilota che ne conosce uno nei paraggi. Lo visitiamo e le Giay che incontriamo sono quasi tutte in abiti moderni: sto già pensando al fatto che i villaggi che mi propone il pilota sono spesso deludenti che finalmente una Giay in completo tradizionale fa la sua apparizione. Ritorniamo sulla strada principale attraversando le risaie su una stretta stradina di cemento.
Rieccoci a Lai Chau e il pilota, come un automa, ripete tutto uguale identico alla prima volta che ci siamo stati: stesso albergo (stavolta però ci mettono in una stanza più lontana dalla strada), stesso ristorante, stesso barettino per prendere il tè. Rivedo le stesse facce di due settimane fa: la donnina del tè, i giocatori di go, il barbiere con specchio e sgabello lì a fianco che stavolta si concede una pausa in un momento senza clienti e che, in mio onore, canta "Mamma son tanto felice" (per chi non lo sapesse una canzone italiana degli anni '40). Poi, visto che il pilota ha già "staccato", mi vado a fare un giretto, anzi un giro proprio lungo fino al mercato che è a circa mezz'oretta a piedi: niente di eclatante, qualche Dao, qualche H'mong Bianca, un manipolo di bimbetti con i quali gioco, ma almeno non sto lì a girarmi i pollici. Chiusura di serata anomala. Prima di cena il pilota, nel corso di una delle sue lunghe telefonate serali, va sù di giri e finisce col litigare apertamente. Non ho idea di con chi ce l'abbia, di sicuro non con me e allora me ne esco prima dalla stanza, lasciandogli la sua privacy. Poi a cena (ovviamente nello stesso ristorante dell'andata anche se stavolta aveva una - triste - novità: una scimmia legata ad un palo per attirare clienti) mi chiede scusa per i toni della telefonata e rivela che all'altra cornetta c'era sua madre che lo sgridava perché era 15 giorni che mancava da casa. Meno male che ho cambiato itinerario ed è già potuto passare da casa un paio di volte...
L'improbabile catafalco di capelli e fili di lana che le H'mong Rosse portano in testa - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
16 - Isole nel mare di nuvole Partiamo piuttosto presto perché la strada per Sin Ho è di 43 scassati chilometri e ho letto che, dovendo giungere le minoranze anche da piuttosto lontano, il mercato perde vivacità piuttosto presto, visto che già verso le 9:30/10:00 le donne prendono la strada del ritorno. Senza contare il permesso per visitare il villaggio: non ho capito se sia obbligatorio o meno, da qualche parte si legge di sì e in altre non se ne fa menzione, fatto sta che dappertutto si descrive la polizia di Sin Ho come molto poco malleabile. Quando avevo deciso il cambiamento di itinerario, avevo detto al t.o. di procurarsi il permesso, che alle agenzie dovrebbero rilasciare senza problemi, e lui aveva detto che sperava di riuscirci. Del permesso non ho più avuto notizie allora ho pensato: "Lo farò sul posto, al massimo pagherò una multa. Vuoi che mi mettano in gattabuia per questo?".
Ripercorriamo lo stesso tratto di strada durante il quale, all'andata, venni punto da una vespa e mi dico: "Stavolta non mi faccio fregare, me ne sto allineato e coperto dietro al pilota". Ma è un'intenzione che non riuscierò a rispettare perchè come cominciamo a salire si presenta un paesaggio stupendo: una fitta coltre di nubi copre la valle e ne lascia affiorare, come isole nel mare, solo la cima di alcune colline o degli alberi più alti. Io non posso fare a meno di procedere con la testa girata a guardare questa meraviglia della natura. Batto la mano sulla spalla del pilota più volte, anche se cerco di trattenermi per non fare tardi al mercato. Nel proseguire lungo la strada però ci sono un paio di cose che non mi tornano. Benché il tratto iniziale l'abbia riconosciuto, da un po' stiamo facendo una strada completamente diversa da quella fatta due settimane fa. L'altra la ricordavo, dopo il tratto iniziale rivisto oggi, molto scassata e più stretta, quella odierna invece si mantiene più larga e ben asfaltata come nella prima parte. L'altra cosa che non mi quadra sono le distanze: sullo stradario è chiaramente indicato che la strada è di 43 km, le pietre miliari sulla strada invece ne conteggiano 54, come poi abbiamo fatto. Non voglio nemmeno chiedermi il perché. Pian piano ci avviciniamo, vedo il numero sulle pietre miliari scendere sempre più: 18, 15, 12 km... Da un lato fremo nel sentire vicino il traguardo e dall'altro temo di imbattermi in un'intransigente pattuglia di poliziotti. Soprattutto per questo, più che per la fredda nebbia che ci avvolge, sto dietro al pilota, nella vana speranza di essere scambiato per un locale.
Sorpassiamo la prima H'mong Rossa, è un'anziana per la strada. Faccio fermare il pilota, pensando: "Così, male che vada, almeno una l'ho fotografata". Ci fermiamo in corrispondenza di quella che è casa sua, dove c'è altra gente che, su nostra insistenza, la convince a farsi immortalare per la solita mancia. Non ha l'abito completo ma la voluminosa capigliatura posticcia, creata da fili di lana rossa misti a capelli caduti e conservati all'uopo (o finti), è notevole. Proseguiamo e lungo la strada si fanno sempre più fitti i gruppetti di donne che stanno andando al mercato, gli uomini invece ci vanno in moto, di solito. 5, 3, 1 km... Siamo arrivati e, deo gratia, di poliziotti non se ne sono visti. Sono libero di andare al mercato e dico al pilota di aspettarmi al parcheggio delle moto. È un mercato cittadino, non si svolge in aperta campagna ma tra le strette strade del centro della cittadina, ed è qualcosa di fantastico. È stracolmo di gente al punto che devo più di una volta farmi strada a fatica per guadagnare un punto dal quale fotografare tutto quel ben di Dio che mi passa sotto gli occhi: H'mong Rosse dalle gigantesche capigliature posticcie; austere Dao Nere alle quali i turbanti avvolti in modo da sembrare triangolari conferiscono un aspetto da aliene; bellissime H'mong Bianche che, in questa zona, portano copricapi conici finora mai riscontrati, di tutte le fogge e colori. È un'esplosione di colori, la quasi totalità delle persone che passano indossa gli abiti tradizionali. Pure il solitamente disinteressato pilota mi ha raggiunto e lo vedo quasi impressionato dallo spettacolo.
Incredibile, appaiono due stranieri. Sono una coppia di ciclisti, dalla statura e dall'aspetto nordici o centro-europei, coi quali non ho il tempo di scambiare due chiacchiere, impegnato come sono a seguire i soggetti che più mi ispirano. Non hanno zaini, parrebbe, e vestiti solo delle attillate mises tipiche di chi pedala, sembrano due astronauti scesi nel pianeta sbagliato. Mentre sto gustandomi questa variopinta Babele, una ragazza mi rivolge la parola in un inglese scolastico ma comprensibile. Mi chiede da dove vengo, come mi chiamo, quanti anni ho (lei 28), ecc. i soliti convenevoli e poi, avendo capito che quello al mio fianco è il mio pilota, attacca anche con lui e vedo che si scambiano i numeri di telefono. "È un'insegnante" mi dice il pilota. Io mi rituffo nella folla e mi lascio trascinare dalla marea fino a quando il pilota non mi fa cenno che è ora di cominciare a rientrare se vogliamo essere a Sapa per la notte. A malincuore mi avvio verso l'uscita del mercato, dove mi fermo per fare della foto ad una Lu e, così facendo perdo di vista il pilota. Lo intravedo salire in moto e andarsene senza voltarsi: possibile che non si renda conto che non gli sono alle spalle? Beh, intanto mi godo ancora qualche spicciolo di mercato. Poco dopo torna e mi dice che la maestrina con la quale avevamo conversato prima gli ha chiesto un passaggio fino a Lai Chau. Mi dice che guadagna poco, che ha bisogno di andare in città, che non sa come fare altrimenti e mi chiede se sono d'accordo a caricarla in moto con noi. Se ho dato in precedenza il consenso a caricare un camionista, prendere una ragazza non dovrebbe essere peggio...
Due Dao Nere chiacchierano nel trambusto del mercato - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Ci rechiamo alla casa dove la ragazza, che non è di Sin Ho, viene ospitata e ci offrono le solite cortesie per gli ospiti. Poi c'è una discussione i cui termini mi sfuggono: non ho capito se il problema sia la grande e pesante valigia che vuole portare con sè o qualcos'altro (l'abbiamo incontrata su una motocicletta simile alla nostra, un mezzo a disposizione pare averlo), fatto sta che ripartiamo come siamo arrivati, senza ragazza in sella. La nebbia si è sollevata e qualche paesaggio prima coperto ora appare nella sua magnificenza: che meravigliosa terra che è il Vietnam delle montagne, non sai se preferire la nebbia o il sole da quanto sono diversi ma ugualmente belli gli scorci che ti regalano. Rientrati a Sapa, prima di riportarmi all'albergo il pilota passa da casa, dove c'è l'energica genitrice. Mi presenta alla signora (quasi come per significare: "È per portare in giro costui che non sto a casa"), fa atto di presenza e dopo poco ripartiamo: la mamma è sempre la mamma anche in Vietnam. Mi riporta all'albergo che ci sono ancora delle ore di luce, che verrebbero sprecate se mi adeguassi ai ritmi del pilota. Attraverso la città e poi esco in direzione sud, senza una meta precisa. Scopro qualche bello spot, ma la luce ormai è poca, potrei passarci domattina.
continua...
Il Vietnam delle montagne - II
Il Vietnam delle montagne - III
Il Vietnam delle montagne - IV
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto