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3 - Verso ovest
Il treno arriva in orario, alle 06:15. Il pilota dovrebbe aspettarmi all'uscita ma, forse perché sono il primo a mettere piede fuori dalla stazione, lo colgo impreparato e non lo vedo. Cerco allora il Ristorante Terminus dove, in alternativa, dovrebbe trovarsi, ma non trovo nemmeno quello: in compenso ogni vietnamita che incrocio mi chiede, evidentemente ho come un punto interrogativo dipinto sulla fronte, se ho bisogno di un taxi o di un bus. Torno indietro e gli altri turisti usciti dopo di me sono ormai tutti sistemati, chi è salito sul pullman del proprio tour/albergo e chi ha preso il bus che lo porterà a Sapa. Torno spazientito a farmi il giro dei locali della piazza antistante per vedere se almeno becco il ristorante e finalmente il pilota mi viene incontro e pronuncia il mio nome, implicita password che risolve la situazione. Caricato lo zaino sulla moto, ci allontaniamo dal trambusto della piazza della stazione per fermarci in un bar poco distante: assumo l'assetto da viaggio con il cinturone (che genera qualche ilarità nel pilota), non metto il busto per la schiena (e me ne pentirò) e faccio la mia conoscenza col tè vietnamita. Amaro come il fiele. E' verde e non nero (che qui chiamano Lipton) ma il vero problema è che non vede un chicco di zucchero nemmeno per sbaglio: poiché è consuetudine offrirlo agli ospiti (e non accettarlo è poco cortese) e anche nei ristoranti c'è sempre un bollitore tenuto in caldo per chiudere il pasto, quella che dovrebbe essere una pausa rinfrancante diventa in realtà una spiacevole consuetudine, al punto che comincerò presto a berlo in sorsi microscopici quando non proprio a fare il gesto di berlo tenendo le labbra serrate.
Lao Cai non ha niente di speciale anche perché in buona parte costituita da moderni edifici, già resi grigi dall'inquinamento, edificati dopo essere stata rasa al suolo dai Cinesi durante l'invasione del 1979. In pratica fonda buona parte della sua ragion d'essere sul fatto di essere la porta d'entrata nel territorio dell'antico nemico: passando sul lungofiume si vedono i palazzi dall'altra parte con le insegne con gli ideogrammi, l'unica cosa che li distingue da quelli da questa parte del fiume (il vietnamita, che in pratica proviene dal cinese, dai tempi della colonizzazione francese viene traslitterato con l'alfabeto latino e non con complessi ideogrammi). Pure per un paese non particolarmente ricco come il Vietnam, la Cina appare un paradiso dei prezzi bassi: come mi ricorda il pilota, anche le prostitute (curioso che il primo "articolo" che gli venga in mente sia questo) costano circa un decimo di quello che costano di qua dal fiume. Adesso che è sposato il sesso è gratuito, sentenzia, non rendendo merito alla sua signora che poi scoprirò essere piuttosto caruccia. Si va dunque in direzione di Sapa, all'interno di una nuvolaglia che dona atmosfere soffuse alle foto ma che non pare promettere nulla di buono. Invece l'aver scelto novembre come mese per visitare questa zona si rivelerà azzeccatissimo: nonostante le medie annue registrino in media solo 7 giorni di pioggia (è il mese meno piovoso di tutto l'anno, all'opposto di luglio in cui piove 28 giorni), non prenderò nemmeno una goccia d'acqua cosa che, viaggiando in moto e con un paio di macchine fotografiche esposte, apprezzerò assai.
Donna H'mong Neri con la tipica gerla - Archivio Fotografio Pianeta Gaia
Pian piano il sole comincia a scaldare e a dissolvere l'umidità, e nell'avvicinarci a Sapa si cominciano a vedere H'mong neri (che bussano subito a danari, si vede che siamo vicino ad una località abituata ai turisti) e Dao rossi (meno esosi, si accontentano della balla del pilota che dice che domani andremo al loro villaggio a comprare dei souvenir), tra le minoranze etniche più belle di questa zona, e anche le maestose montagne, spesso solcate da vertiginose risaie terrazzate, soprannominate le "Alpi del Tonchino". Difatti, ad appena 19 chilometri da Sapa e raggiungibile con un trekking piuttosto impegnativo perché non ci sono rifugi e bisogna passare almeno una notte fuori, si erge in Fansipan, la montagna che coi suoi 3143 metri è la cima più alta del paese. Una breve sosta del pilota al suo bar per sostituire il casco (in realtà era quello che inizialmente aveva dato a me ad essere inutilizzabile, con il guscio interno di polistirolo ormai completamente staccato da quello di plastica esterno): passa a me quello che usava lui (del tipo a scodella, per intenderci) e lui prende il casco integrale. Per il quale evidentemente nutre un certo rispetto, visto che lo userà solo in speciali occasioni.
Proseguiamo verso ovest in direzione Lai Chau e, mentre la strada si inerpica, attraversiamo una zona dai paesaggi spettacolari e dalle montagne contrassegnate dalla coltivazione sopraelevata di quelle foglie che troverò poi spesso nelle zuppe. Passiamo davanti anche alla Thac Bac (Cascata d'Argento), alta circa 100 metri e a soli 15 chilometri da Sapa valichiamo il passo Tram Ton, che coi suoi 1900 slm è il più alto del paese. Il paesaggio che si gode da quassù è magnifico, molto meno la strada che pare essere stata costruita soprattutto per permettere ai turisti di Sapa di salire al passo e poi tornare indietro. Difatti, in direzione Lai Chau, comincia subito un lungo tratto di polveroso sterrato e io, che faccio fermare la moto più volte per scattare le foto da bordo strada, finisco col rendere un cattivo servizio alla seconda macchina fotografica, la cui custodia è tutt'altro che ermetica. Anche il mezzo pare risentire degli scossoni, nonostante il pilota, che sa quanti morti, anche recenti, ha causato questa strada che fiancheggia uno strapiombo di circa 400 metri, guidi con prudenza e al termine del tratto più impegnativo della discesa facciamo la prima tappa presso uno xe may (riparazione motociclette), un'insegna con la quale familizzerò velocemente. Mentre il mezzo viene sottoposto ad una revisione, colgo l'occasione per inoltrarmi in una coltivazione di tè che avevo visto poco prima.
Il passo di Tram Ton costituisce anche uno spartiacque climatico: leggo che il versante di Sapa è spesso freddo (ed è per questo che i francesi la scelsero come stazione climatica per sfuggire all'afa delle pianure) anche quando in quello di Lai Chau fa caldo, cosa puntualmente confermata dai fatti. Stiamo per inoltrarci in una delle zone più interessanti del paese da un punto di vista etnico e anche tra le meno battute perché i turisti raramente si spostano da Sapa e quei pochi che lo fanno di norma vanno a Bac Ha che è nella direzione opposta, e dico al pilota di stare sul chi va là perché in zona dovrebbero esserci dei villagi dell'etnia dei Lo Lo. La memoria però mi gioca un brutto scherzo: in realtà quelli che volevo vedere erano i Lu, una popolazione non facilissima da incontrare, la cui caratteristica più vistosa è l'annerimento dei denti, pratica effettuata spalmando sullo smalto il nero provocato dal fuoco sul fondo delle tazze che però sta pian piano scomparendo visto che le nuove generazioni non la mettono quasi più in atto. Il bello è che il pilota non ha idea di chi siano i Lo Lo ma nemmeno i Lu, chiede un po' di informazioni in giro e poi ci infiliamo in un villaggio con delle belle palafitte di grandi dimensioni. Entriamo in casa e il nutrito gruppo familiare, che ha ospiti, ci accoglie di buon grado ma non gradisce vengano scattate foto alle signore più anziane che, effettivamente, hanno i denti anneriti. Proseguiamo nella visita del villaggio e incontriamo delle giovani Lu con la dentatura intonsa che stanno mettendo ad asciugare dei panni appena intinti nell'indaco che il pilota, nel fare il galante per aiutarle, fa maldestramente scivolare dalla canna di bambù sulla quale erano appoggiati e mi schizza i pantaloni. Poco male, le macchioline scure che tutt'ora li segnano nonostante ripetuti lavaggi mi ricorderanno questo viaggio. Più tardi incontro un'anziana coi denti anneriti che si lascia fotografare.
Proseguendo verso Lai Chau attraversiamo una zona abitata da un'etnia con degli strani copricapi formati da capelli caduti (o finti) intrecciati e poi solidificati con la cera, in cima ai quali poggia una specie di corona rettangolare. Ricordo di averli visti in foto durante i preparativi ma non mi sovviene il loro nome. Il pilota chiede informazioni e questi si qualificano come Dao, un'etnia delle più diffuse (sono più di 600.000) ma che si suddivide in parecchi sottogruppi, spesso dai costumi diversi. Giungiamo a Lai Chau nel primo pomeriggio e ci sistemiamo in albergo. Lai Chau fino a pochi anni fa si chiamava Tam Duong, nome cambiato quando venne presa la decisione di creare un bacino idrico che avrebbe sommerso la "vecchia" Lai Chau, ora chiamata Muong Lay. Una trentina di chilometri prima di Lai Chau c'è una città che ora si chiama Tam Duong, chissà come si chiamava prima... Anche i vietnamiti fanno ancora confusione tra le denominazioni vecchie e quelle nuove, col risultato che non si capisce mai a quale città ci si riferisce. Una vera complicazione affari semplici.
Paesaggio nei pressi del passo di Tram Ton - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Lai Chau (nuova denominazione), che sorge in una conca circondata da scenografiche vette appuntite che paiono nascere dal nulla, è stata individuata come capitale della regione e fatta oggetto di imponenti investimenti. Sono stati chiamati i migliori architetti del paese per costruire la parte nuova della città, contraddistinta da grandiosi palazzi circondati da enormi parchi e unita da larghissimi viali dove però, al momento, passano ben pochi mezzi. Il nostro albergo, come tutta la gente, è invece nella parte vecchia. Ma non c'è tempo per indugiare oltre, dobbiamo raggiungere Sin Ho, che ho letto essere un villaggio fra i più interessanti, e rientrare in serata, visto che non ha alberghi. Stando allo stradario c'è una strada di 43 chilometri che vi ci porta. Partiamo circa alle 14:30 e attraversiamo una specie di foresta pluviale, con vegetazione fittissima e alcuni giganteschi alberi che sembrano quasi delle palme. La temperatura non è più quella fresca della mattina e questo rende più attivi gli insetti. Sento qualcosa sbattermi sulla guancia e una fitta dolorosa: mi sto chiedendo se a pungermi sia stata un'ape o una vespa quando - "Toc!" - ricevo la risposta. Una vespa mi rimbalza sugli occhiali da sole e si adagia sul colletto del pilota. Un piffetto e la restituisco alla natura che ci circonda. Incontriamo un gruppo di H'mong floreali ma la strada, improvvisamente diventata sterrata e sempre più malridotta e ripida, rende il percorso un calvario, lento e pieno di botte alla mia schiena. Saremo a circa metà strada, sono già le 15:30 e qui fa buio verso le 17:30. Il pilota dice che non faremo in tempo ad arrivare a Sin Ho, visitarla e tornare indietro prima del buio e mi convince a rientrare, dopo una breve sosta presso una famiglia H'mong ormai tutta convertita all'abbigliamento moderno. Una scelta che avrà il suo peso nel prosieguo del viaggio, come vedrete se avrete la forza di leggere fino alla fine.
Tornati a Lai Chau, ci rilassiamo un attimo dalla sfacchinata odierna presso una bancarella dove viene servito il tè a fianco della quale opera un barbiere, con una semplice sedia, uno specchio appeso al muro esterno di una casa e un telo a riparo della pioggia e del sole. Quando non ha clienti si siede a bersi un tè. Rientrati in albergo effettuo un bucato di prova, per vedere se una notte è sufficiente per asciugare i panni. Ho la schiena a pezzi per le tante ore fatte in moto: non sono ancora le 20:00 e in pratica vado già a nanna.
4 - Cara oche
Da oggi comincio a mettere il busto per la schiena, per vedere di limitare il deleterio effetto delle tante buche sulla mia povera schiena, e poiché avverto abbastanza la differenza d'ora in poi lo metterò tutti i giorni, togliendola solo prima della doccia serale. Come temevo una sera non è sufficiente per asciugare i panni, anche perché di norma è seguita da un'umida mattina. Riprendiamo il viaggio seguendo l'itinerario che il t.o. ha fatto avere al pilota che scopro essere nient'altro che una successione di città dove dormire. Spero che il pilota abbia una vaga idea di quello che c'è da vedere tra una città e l'altra ma non ci metterei la mano sul fuoco. Facciamo a ritroso lo stesso percorso fatto all'andata ripassando per Sapa, dove il pilota si fa consegnare dalla moglie un paio di scarpe nuove, e poi, dopo essere tornati a Lao Cai, andiamo a nord verso Bat Xat. Ci si sarebbe potuti arrivare da un'altra strada, più corta anche se forse, a vedere dallo stradario, più piccola e probabilmente di qualità inferiore, vedendo paesaggi e villaggi nuovi e, sicuramente, meno noti di quelli visti per la seconda volta. A Bat Xat, capoluogo di distretto con oltre 60.000 abitanti che non viene nemmeno citato dalla Lonely Planet a dimostrazione di quanto, al di fuori di Sapa e dintorni, sia ancora poco diffuso da queste parti il turismo fai da te, pranziamo e poi scarichiamo i bagagli in un albergo dall'ingresso imponente ma dalla reception perennemente sguarnita. A quanto pare stanno tutti nel cortile interno: i clienti che pranzano molto rumorosamente e lo staff dell'albergo/ristorante che li serve.
Lasciati i bagagli nella stanza, andiamo a visitare i villaggi della zona risalendo la strada che fiancheggia il Fiume Rosso e che conduce fino a Muong Hum, la città che, se avessimo preso l'altra strada, avremmo attraversato facendo parecchi chilometri in meno, come scoprirò in seguito ripassando sulla mappa il giro fatto. Visitiamo un villaggio popolato dai Giay, una delle minoranze più diffuse ma anche una fra quelle coi costumi meno spettacolari: le donne indossano pantaloni neri e una camicia ad apertura laterale generalmente di colori pastello come l'azzurro, il rosa o il verde chiaro, contraddistinta da una fascia di colore diverso e ricamata dal collo fino al fermaglio sotto l'ascella destra. Non sono abiti particolarmente complessi e pieni di decorazioni, al punto che ormai vengono quasi sempre comprati già fatti. Nel villaggio seguente, mentre sostiamo per fare benzina nei più costosi "distributori" non automatici, vedo delle ragazze appartenenti ad un sottogruppo degli H'mong Neri, distinguibili dalle maniche con decori azzurri e dall'acconciatura tenuta insieme da vistose spille, una fettuccia ricamata e pettini decorativi. A dire la verità, cogliere queste sottigliezze sul momento, non avendo con me tutti gli strumenti necessari per l'identificazione, è impresa piuttosto ardua: è solo a viaggio ultimato, confrontando le foto che ho scattato con i libri e con le immagini reperibili sul web che posso emettere questi verdetti certo di non dire baggianate. Nel villaggio c'è anche un abbozzo di mercato (si vede che non è il "suo" giorno) e gironzolo per un po' tra i sorrisi della gente che mi chiede di far loro una foto per poi guardarsi nel display: segno che di turisti qua non ne passano tantissimi.
Segue una sosta ad un altro villaggio del quale il pilota non sa né il nome né che etnia lo abiti: del resto sono in difficoltà a capirlo anche a posteriori, visto che quasi tutti indossano abiti moderni. Mentre passeggio solitario per il villaggio passa una donna, dai pantaloni tipici dei Dao ma potrebbe anche essere proveniente da un villaggio vicino, in groppa ad un bufalo. La fotografo da lontano e quando si avvicina le vado incontro sorridente, non avendo altro modo di manifestare le mie buone intenzioni in mancanza dell'interprete. Ma il bufalo non coglie la mia bonarietà e fa uno scatto che sorprende la signora, disarcionandola. Per fortuna si rialza senza apparenti problemi: certo che sti bufali, grossi come sono, sono proprio dei fifoni...
Proseguiamo in una valle spettacolare che regala scorci magnifici e ci fermiamo dove il caso ci porta: siamo nei pressi di un villaggio sconosciuto e ci sono delle Dao che, come d'abitudine, sono intente a ricamare. Ci fermiamo, scatto qualche foto alle belle vedute ma le donne non vogliono essere riprese. Solo l'uomo prende in braccio un bimbo e chiede di essere fotografato. Lascio lì il pilota e mi incammino verso il villaggio nei pressi, che è invece abitato da H'mong floreali, dove alcune donne si lasciano fotografare senza problemi. Nel tornare verso Bat Xat il pilota ha un sussulto e mi sorprende, prendendo un'inaspettata deviazione su una stradaccia che si inerpica sul fianco di una irpida collina. Poco dopo ci imbattiamo in una famiglia di H'mong Neri che pulisce delle pannocchie in mezzo alla strada e le bimbe che stanno badando a dei bufali. Sembrano stupiti di vederci e si lasciano fotografare, nonostante le bimbe si nascondano all'obiettivo e vengano quasi costrette a farsi fotografare dal nonno. Proseguiamo per alcune centinaia di metri fino a quando il sentiero muore di fronte ad un paio di abitazioni. Scendiamo e tutti escono di casa e smettono le loro occupazioni: come diranno al pilota, è la prima volta che un turista si avventura fin lì. Ovviamente mi viene offerto del vino di riso, come nelle grandi occasioni, ma sapendolo piuttosto potente (sui 40/50°) e che vanno bevuti almeno due bicchierini tutti d'un fiato per non offendere il padrone di casa, fingo di non capire ed evito l'obbligo mettendomi a fare foto che uno degli uomini di casa, forse già alticcio o forse solamente euforico per l'inaspettato fuori-programma, chiede ripetutamente per poi sbellicarsi dalle risate nel rivedersi nel display.
Donna Dao Rossi, intenta a cucire - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Rientriamo all'albergo e mentre io sono carico per i tanti bei posti visti in giornata, il pilota è carico perché stasera potremo andare al karaoke di un suo amico. Poi mi chiede se sono sposato: "No, ma è come se lo fossi, visto che da diversi anni vivo con la stessa donna". Lui pare capire solo la prima parola e, facendomi l'occhiolino, mi prospetta una serata interessante visto che, a quanto pare, nei karaoke vietnamiti si possono fare incontri. Sarà, ogni paese nasconde la prostituzione sotto vesti diverse: in Giappone ci sono le soapland, in Cina le spa, in altri posti i retrobottega dei barbieri, in Cambogia le karaoke girls, in Vietnam, in base ai miei ricordi, a parte Saigon dove le prostitute arrivarono ad approcciarmi direttamente per strada, mi sembrava che il classico paravento fosse quello dei massaggi. Ma forse sono io a non essere aggiornato. Andiamo al karaoke e, francamente, non c'è proprio nulla di sexy: 2/3 sparuti gruppi di maschi che se la cantano ma di ragazze neanche l'ombra, tranne la gestrice del locale. Mi chiede cosa voglio da bere ma nella ristretta scelta che mi viene offerta non trovo nulla di praticabile: il caffè non lo bevo, il tè locale lo trovo imbevibile, la birra l'ho appena bevuta a tavola, allora passo, sperando che la serata si concluda presto. Invece dura un po' e mi tocca di sorbirmi i miagolii stonati degli avventori. Unico sussulto di interesse nella serata è quando riconosco le inconfondibili note de "l'Italiano" di Toto Cutugno fra quelle interpretate dal pilota. Presto attenzione al momento in cui, nella versione in italiano, Cutugno canta "italiano vero" ma, nelle parola che scorrono sullo schermo non appare mai né "Italia" né "Y", i due modi che hanno i vietnamiti per scrivere il nome del nostro paese. Chiedo al pilota ma manco sa che la canzone sia italiana: mi sa che a Toto gli hanno fregato i diritti d'autore... Quando finalmente il pilota si arrende al fatto che il suo amico non verrà ce ne andiamo e la gestrice del locale, che mi aveva pure offerto dei semi di girasole, mi rincorre per salutarmi e per dire che le nostre bevute le offriva gentilmente la casa nella speranza di vederci anche la sera seguente. Evidentemente davo lustro al locale...
Rientriamo in albergo e si sente un gran baccano, sembra un altro karaoke, vicinissimo alla nostra stanza. Mentre curioso dalla porta da cui proviene il frastuono, il figlio del proprietario dell'albergo la apre: dentro ci sono lui e altri suoi 3 amici che si dilettano in questa barbara pratica. Purtroppo ci invitano e mi tocca di sorbirmi un'altra serie di latrati, il tutto condito dal vino di riso che il figlio del proprietario, vista l'occasione speciale, è andato a prendere e che non possono esimermi dal tracannare. Dopo una mezz'oretta riesco a mettere fine al supplizio e una volta in stanza non posso che sperare che gli allegri cantanti cedano presto annebbiati dai fumi dell'alcool, cosa che dopo un po' si verifica. La notte è afosa (Bat Xat è ad appena 140 slm), si sente qualche zanzara e forse farei meglio a sfruttare la zanzariera ma non ho voglia di metterla a posto e mi addormento così.
continua...
ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi
Roberto