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Eritrea, un'insolita Africa - II

Il viaggio del nostro Luca nell'antica colonia italiana

4° giorno

Pessima colazione da Massawa Fast Food, buono giusto il makiato poi partenza col minivan destinazione Adi Quala vicino al confine con l’Etiopia, luogo ora raggiungibile con permesso sia per gli stranieri (ottenibile al ministero del turismo) sia per il mezzo (a quello ci ha pensato l’autista, va convalidato presso un terminal dei bus in uscita). Lungo il cammino sosta a Dbarwa presso alcune costruzioni italiane di pregio, sulla strada asfaltata ma in pessime condizioni, quasi solo ciclisti in tenuta da uscita d’allenamento festivo, strada pianeggiate in un falsopiano sempre oltre quota 2.000m. Passato Mendefera peggiora ancora e all’arrivo ad Adi Quala (dopo circa 3 ore) condividiamo la via solo con gente a piedi, qualche carretto e vari animali. Proviamo a recuperare subito i permessi per andare oltre, ma l’addetto non è presente, facciamo tappa alla chiesa copta di Damba Enda Slassie, costruita a forma di tipico tukul, banale all’estero, preziosissima all’interno. Entrati (occorre lasciare le scarpe fuori, ma si cammina su comodi tappeti), il monaco che fa da custode ci illustra le infinite decorazioni protette da leggeri teli. Molte di queste rappresentano la storia dell’Eritrea, le sue guerre e le sue invasioni, alcune raffiguranti le vicende italiane di guerra nella vicina Etiopia. Gentile e disponibile, ci tiene a presentarci ogni aspetto della chiesa, evidentemente ben pochi avventori passano da qui, del resto l’area è stata aperta agli stranieri da poco. Usciti (va lasciata una mancia al monaco, indicativamente 1 € a persona), giriamo e rigiriamo per il paese alla ricerca dell’addetto ai permessi, dopo oltre 45’ lo rintracciamo e possiamo proseguire in direzione del cimitero e mausoleo italiano di Mekaber. Usciti da Adi Quala si prende una via di campagna e subito ci imbattiamo in un gruppo di persone che lavora nei campi, tutto rigorosamente a mano, aiutati solo da una coppia di buoi per battere i cereali. Sembra una scena uscita da un documentario di due secoli fa, invece tutto vero, cordiali e gentili ci intratteniamo con loro per comprendere le dinamiche di come ancora si lavora la terra da queste parti, e poco oltre come recuperare l’acqua da un pozzo lontano da tutto, dove i bambini vanno coi somari a far scorta di acqua da riportare nei villaggi limitrofi. Da qui risaliamo la montagna a piedi (30’) per arrivare al mausoleo, incrociando un minuscolo villaggio abitato al momento solo da donne, gli uomini sono nei campi al lavoro (volendo si può comprare acqua in bottigliette). Poco oltre sorge il mausoleo, al culmine della montagna sulla valle sottostante che porta al confine con l’Etiopia. La vista spazia lontano su di un territorio che fino a pochi mesi fa era militarizzato ed invalicabile, il mausoleo e ossario è in ricordo degli italiani caduti nella battaglia di Adua del 1896. Largo spazio agli ufficiali, ben poco ai soldati coscritti quaggiù, a combattere contro popolazioni che nulla di male avevano fatto, se non vivere a casa loro. Al di là del monumento, merita la vista in sé, poi coloro che proprio non riescono a vivere sconnessi potranno pure ricollegarsi col mondo poiché qui il roaming funziona grazie alla connessione etiope (mi è stato riferito, non ho provato, da verificare). Scendiamo dalla montagna per fare nuovamente tappa al pozzo, sempre preso d’assalto da “carovane” di asini con otri realizzati con vecchie camere d’aria, il ritorno ad Adi Quala è veloce, si ripassa dall’addetto ai permessi in un cammino che in città c’è già familiare, mirando e rimirando più volte la vecchia stazione di rifornimento ora Tamoil di chiara architettura italiana. Sulla strada del ritorno sosta a Mendefera per rapido spuntino, poi una volta giunti ad Asmara, la guida non vuole farci perdere il cimitero italiano posto in zona ovest, non distante dalla chiesa Kiddus Michael. In fatto di cimiteri non ci fanno mancare nulla, qui giungiamo in pieno tramonto e gli scorci regalano immagini evocative. Rientrati in hotel usciamo a cena più tardi delle serate precedenti, optiamo per il ristorante Kateja, anche questo consigliato tra quelli non troppo lontani dall’hotel, proprio in una laterale del Fiat Tagliero, nemmeno un’insegna ma posto nuovo per una cucina più moderna dello standard, sfoggiano anche tagliatelle al ragù dove tutto sarebbe perfetto, non fosse che l’abbondanza di peperoncino rende il piatto inaffrontabile.

 

Il colorato mercato di Foro

 

5° giorno

Colazione all’Asmara Sweet Caffè con meno paste di due giorni prima e soprattutto inservienti senza più il cappello da Babbo Natale, poi giro al mercato per procurarci i generi alimentari freschi (frutta, verdura e pane) da consumare alle Dahlak. Terminata questa incombenza (per l’acqua ci adopereremo a Massawa), è tempo di partire, la discesa ci attende. Già, in circa 100km si scende dai 2.350m di Asmara al mare, la prima parte del percorso è la più spettacolare, lasciata la città e i suoi cimiteri rievocativi (nel lato est sorge quello inglese), si aggirano i grandi pendii lungo una strada non male rispetto a quella del giorno prima, sovente incrociando i binari della ferrovia costruita da Massawa ad Asmara dagli italiani, ora non più funzionante. Il percorso che si può compiere con un vecchio treno a vapore per turisti termina a Nefasit, già scesi di oltre 700m. Il clima già cambia, caldo molto più intenso, tra le montagne a sud-est prima della discesa tra i tanti tornanti che conducono a Nefasit si può scorgere il monastero di Debre Bizen, incastonato in luogo non facilmente accessibile (circa 2 ore a piedi), unico dell’Eritrea dove non è consentito l’accesso al mondo femminile, animali compresi. Tra una foto di un panorama e quella alle genti che percorrono rigorosamente a piedi la strada giungiamo dopo quasi 2 ore oltre Ghinda e facciamo sosta al Semhar Rist, costruito pure lui a forma di tukul. Da qui dista poco il fiume Dessèt celebre per due cose: il memoriale della battaglia di Dogali ed il ponte sul fiume stesso. Il primo commemora i caduti italiani della battaglia qui svolta nel 1887 con gli abitanti del luogo di ras Alula, il secondo è il celebre ponte contraddistinto dalla frase in torinese “custa lon ca custa” (costi quel che costi) riferita all’acquisto della baia di Assab da parte degli italiani per prendere il controllo della situazione sul Corno d’Africa, baia situata nel sud dell’Eritrea al confine con Gibuti, luogo non aperto agli stranieri al momento. Passato il ponte si attraversa un’area desertica che un tempo faceva da base all’aeroporto internazionale di Massawa, ora non più operativo. Massawa era la perla abissina sul mare ma la storia l’ha lasciata in drammatiche condizioni. Città a impronta araba, anzi yemenita, vista la sua posizione è stata ripetutamente bombardata durante la guerra d’indipendenza e ora versa ancora in condizioni di decadenza, nulla è stato ristrutturato della parte storica sulle due isole raggiungibile lungo ponti su terrapieni. La parte sulla terraferma è costituita da ruderi pre-indipendenza e quartieri costruiti di recente, uno da imprese coreane, un altro da imprese cinesi, quelle che si combattono lo sfruttamento del sottosuolo, entrambi anonimi e poco abitati. L’ingresso all’isola Taulud avviene in corrispondenza della piazza con la cattedrale di Santa Maria e tre carrarmati recuperati agli etiopi in bella mostra. Quest’isola, meno caratteristica della seconda, ovvero Massawa, giace in stato di decadenza e abbandono, qualche hotel per i pochi viandanti, anche questi in totale decadenza. Facciamo tappa al Central Hotel dove ogni volta che si richiede la chiave della camera occorre firmare il registro. La carta igienica arriva giusto in un secondo tempo e dopo svariate richieste ed è sotto forma di fazzoletti di carta, per avere gli asciugamani è un’attesa infinita, almeno c’è un campo da basket, ma non c’è il pallone e nessuno che giochi. A suo favore invece la bella posizione sul mare e la vista sull’isola Massawa che all’alba e al tramonto regala immagini da cartolina. Facciamo il punto riempiendo innumerevoli scartoffie per l’accesso al parco delle isole Dahlak e per ritirare il permesso dell’indomani per andare al sito pre aksumita di Adulis imparando che il permesso per Ghela’elo (ingresso in Dancalia) non c’è stato concesso ed ovviamente qui non si può chiedere più nulla a nessuno. Poco prima del tramonto, a piedi iniziamo a visitare l’isola di Massawa, scontato dire che calato il sole non si veda più nulla, a parte poche e rare insegne di negozi il buio è totale, ma quel poco che si riesce a vedere ha un grande fascino anche se la città è praticamente deserta. Dopo aver preso indicazioni in alcuni negozi su costi e disponibilità di taniche per l’acqua che utilizzeremo alle isole per preparazione del cibo (più si entra in città e più il prezzo diminuisce) e bottiglie d’acqua da bere (circa tre litri a testa al giorno, ma volendo anche con due si sarebbe fatto non essendoci un caldo infernale, soprattutto di notte) optiamo per la cena in un ristorante nella zona centrale consigliato anche dalla LP ben dal 2006. In pratica, sotto a una tettoia, ci sono tavoli sulla terra, all’interno vari tipo di pesce, una portata da due costa 120n, lasciamo fare agli addetti (parlano solo la loro lingua) che li servono ben grigliati da mangiare con le mani assieme a del chapati, altro non c’è. Il pesce è squisito, le bibite le forniscono, la birra no (sono musulmani), ma se la portate da fuori non si fanno nessun problema. Al termine ci servono chapati al miele. La strada all’ingresso dell’isola che da sul porto interno è l’unica con un briciolo di vita, un susseguirsi di localini sotto a costruzioni di corallo, luogo ideale per il rito del caffè che non va nemmeno ordinato, terminata la lunga preparazione viene servito agli avventori gratuitamente assieme ai popcorn, devo dire delizioso. Tra i 4/5 caffè pressoché identici abbiamo fatto tappa da Portico’s, che oltre a caffè e tè serve ogni tipo di bibita, birra compresa, che è la bevanda più richiesta dai pochi eritrei che stanziano qui, volendo anche etiope. Dopo il caldo del giorno la temperatura è gradevole, molto meno le condizioni dell’hotel, se ho il privilegio di una doccia quasi funzionante (fresca ma non fredda), la tazza è in condizioni di basso profilo e dal rubinetto del lavandino cade una goccia d’acqua ogni anno. Confrontandomi con altri avventori devo quasi ritenermi fortunato data la condizione da VIP della doccia. Asmara dista dalle isole di Massawa circa 110 km, percorribili in circa 3 ore se non si effettuano soste.

 

La disastrata ma affascinante casa di Mammub Mohamed Nahari

 

6° giorno

Abbondante colazione al Cafè Seghen, poi col minivan recuperiamo la guida governativa (parla inglese, non italiano, il costo è compreso in quello trattato con l’agenzia) all’ufficio del turismo e passiamo per convalidare il permesso al terminal, nella parte interna della città, in pessime condizioni. Partiamo percorrendo la strada costiera P6, asfalto buono ma strada mancante in corrispondenza dei fiumi che s’incontrano, in questo momento senza una goccia d’acqua, ma occorre aggirare il percorso. Si passa dal monumento in ricordo della strage di Hirgigo, dove 350 eritrei furono massacrati dagli etiopi negli anni ’70, poi da lì si continua fino al paese di Foro incontrando i primi insediamenti Afar, gli abitanti della remota e terribile Dancalia. A Foro si lascia la via maestra (che comunque in alcuni tratti è già in pessime condizioni, il viaggio fino ad Assab, accessibile solo agli eritrei, dura almeno 8 ore) per deviare verso il mare, meta odierna è Adulis, l’antica città pre-aksumita che faceva da tappa di accesso e uscita di tutte le merci di quell’importante civiltà, dalle montagne alla penisola arabica. Trovare l’accesso non è facile, nessuna indicazione, ci si muove nel mezzo del deserto dovendo lasciare le tracce principali perché alcune spaccature del terreno non ci permettono di seguirle. In qualche modo giungiamo al nulla costituito da due container, una tenda che protegge un generatore e una rete che funge da letto per un custode che chissà quale cattiveria avrà fatto nei confronti del regime per essere stato messo qui. A piedi si prosegue alla ricerca delle rovine, solo il 2% del territorio è stato scavato, in pratica a parte qualche affioramento minimo solo due corpi della città sono visibili. Il vero valore è averne trovata l’esistenza, non tanto quello che si vede, anche se queste due parti sono ben tenute e con le spiegazioni della guida (va lasciata una mancia, l’equivalente di 1€ a persona pare sia la cifra giusta) sulle tre chiese esistenti ce ne facciamo un’idea interessante. Ovvio che i resti d’edifici costruiti oltre 6.000 anni fa in luoghi che hanno vissuto guerre non indifferenti non possono certo versare in perfette condizioni, ma saranno utili per comprendere le forme architettoniche che vedremo in seguito nell’altopiano. Mentre due abitanti del luogo caricano all’impossibile un dromedario di arbusti, questi urla a più non posso, forse urla per aver visto un assembramento di gente in un luogo del genere, dove causa rottura del minivan rimaniamo a lungo, prima all’ombra dell’unico esile albero di una certa dimensione, in seguito sotto al sole nella speranza che i soccorsi ci avvistino. Fortuna che i cellulari dei locali funzionano, riescono a contattare un autista che col suo mezzo, dopo innumerevoli svolte nel deserto ci avvista, non solo ci recupera ma riesce pure a trainare il nostro mezzo fino a Foro, con svariate rotture della corda di traino. Poiché a Ghela’elo non possiamo andare, ne approfittiamo per girarci Foro e il suo animatissimo mercato frequentato da popolazione locale di fede islamica, assolutamente differente dall’altopiano. Non capiamo se sia altamente caratteristico per noi o se noi lo siamo per loro, fatto sta che la loro curiosità ci permette di fraternizzare e dopo un’ora avanti e indietro per i 500m del mercato lungo la strada principale, sotto ad un sole alla Dan Peterson (non spacca le pietre perché le case son fatte più di legno e lamiera…), facciamo sosta per un tè caldo e ristoratore da Do Nueys o, per chi ha tempo, per un caffè. Preso atto che il nostro minivan necessiterà di cure, la guida tratta con i soccorritori il passaggio per Massawa così da arrivare in tempo utile per vederci la fascinosa città ben prima del tramonto. Massawa merita una visita approfondita, certo, tutto è ancora deturpato da bombe e decadente, ma il fascino che emana perlustrando vie e piazze è incredibile, tra terrazzini di legno in stile turco e piazza con minuscoli locali dove incontrare una popolazione che un sorriso o un caffè lo regala senza pretendere nulla in cambio. Perla dell’isola la splendida casa di Mammub Mohammed Nahari, colpita più volte da bombe ma ancora capace di ammaliare. Le case di corallo impressionano per la finezza e per lo splendore anche in un contesto malconcio, gli anziani nella piazza a chiacchierare e bere caffè, appena sentono una voce italiana hanno piacere di conversare e qui nemmeno i bambini son timorosi, anzi i più vogliono essere fotografati, ovviamente col loro smartphone. Per evitare di ritornare in albergo all’isola Taulud e cercare un luogo per cenare lì dove nel deserto e nell’abbandono ci sono solo hotel, rimaniamo direttamente sull’isola Massawa, dove sistemiamo gli acquisti dell’acqua che ritirerà un addetto per portarcela direttamente all’imbarco assieme all’acqua per cucinare ottenuta dopo lunga discussione onde evitare di pagare le taniche. A quel punto è già tempo di cena, nella parte iniziale di fronte al porto interno ci sono i soliti locali e giusto per una questione d’illuminazione optiamo per Seghen anche se la cena non è così soddisfacente. Assisto però al rito completo del caffè, compresa l’invasione di popcorn, caffè sì ricchissimo. Al rientro la solita camera scalcagnata con doccia fresca e bagno in pessime condizioni.

 

continua...

 

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