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Amazzonia - IV

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Amazzonia - IV

Il diario di viaggio di un affascinante avventura nel cuore della foresta pluviale

 

... segue 

 

6 – Otorongo!

Dennis nella notte si è svegliato e ha seguito il verso di una rana, che chiamano sapo - rospo in castigliano, ma è una rana -, per catturarla. L’ha catturata per mostrarmi, la mattina seguente, la cosiddetta “cerimonia del sapo”. L’animale è stato chiuso in una pentola con delle foglie e adesso, benché non le venga fatto alcun male e dopo verrà liberata, viene legata, tutte e quattro le zampe, a quattro stecchetti affissi nel suolo, come un quattro di spade. Lo scopo è quello di stimolare la secrezione da parte della rana del veleno - per questo viene immobilizzata - che risiede nel dorso e nelle cosce. Per nostra sfortuna la rana ne ha molto poco, si vede che lo ha usato come strumento di difesa di recente, e occorrono alcuni giorni perché “si ricarichi”. La rana viene quindi liberata e la cerimonia viene rimandata.

 

Ma non mancano le cose da fare. Graciela ha scavato una buca nel terreno, vi ha messo le foglie dell’awaska e con un bastone ora le sta pestando come fossero in un mortaio. Pian piano le foglie assumono la densità di una poltiglia. Nel frattempo Dennis, con la semplicità con cui si può bere un bicchiere d’acqua, col fido machete ha tagliato alcuni rami, li ha piantati sul letto del fiume e legati tra di loro con delle liane, costruendo in un batter d’occhio un rudimentale ma efficace corrimano a fianco del ponte. Ora, seppur facendo attenzione a non guardare troppo in basso, attraversare il ponte non mi risulta più impossibile. S’ode del trambusto: Hector ha catturato (con un bacchetto e ora la tiene per la testa) un piccolo serpente, a suo dire molto velenoso, praticamente ad un paio di metri dalla maloca. È talmente piccolo che sembra strano che sia così temibile ma gli indios, che meglio di me sanno di cosa si tratta, paiono conoscerne la triste fama. Hector con un coltellino gli fa tirare fuori tutto il veleno da quei denti simili a quelli della vipera e poi vorrebbe liberarlo ma sa che gli indios hanno un rapporto diverso con la natura e chiede a loro cosa farne. Se poi qualche giorno dopo un bimbo venisse morso da quel serpente o uno simile, come glie lo spieghi? Hector lo getta a terra, una donna prende un bastone e lo finisce con un paio di colpi ben assestati.

 

Dopo questa inattesa parentesi, si può andare a pesca, utilizzando quanto raccolto e lavorato in precedenza. Ora che ami e fili di bava si trovano in qualsiasi emporio spesso si pesca con questi, ma una volta si usava un altro sistema, quello che mi mostrano. Dennis e Wagner si siedono su un tronco che fuoriesce dal fiumiciattolo - che poi è lo stesso dove ci si lava e si prende l’acqua, solo più a monte - e, con un legno, cominciano a pestare ben bene le radici di barbasco colte ieri. Nel mentre Graciela e due ragazzine agitano l’acqua del fiumiciattolo, per snidare i pesci che si nascondono sul fondo. Canë aspetta più a valle, con un retino in mano, in corrispondenza di un punto in cui, causa un tronco caduto e la vegetazione che gli si è raccolta attorno, il letto del fiume fa una strettoia. Finita l’opera di sbriciolamento delle radici, Dennis e Wagner gettano ripetutamente il barbasco nell’acqua e lo risollevano, operazione che poi in seguito effettuano anche col l’awaska. Questa tecnica viene definita, impropriamente, “pesca col veleno”. In realtà, queste due piante - di solito se ne usa una alla volta - più che avvelenare il pesce che poi andrebbe mangiato, privano l’acqua dell’ossigeno. I pesci pertanto salgono in superficie per respirare dove Canë, Graciela e le due ragazzine che nel frattempo si sono dotate di retini, li catturano. Quando andiamo via in ogni retino ci sono diversi pesci, fra cui alcuni piranha. Torniamo alla maloca, dove il frutto della mattinata di lavoro viene messo sul fuoco.

 

Mentre io e Hector stiamo cincischiando nella maloca in attesa che il pesce sia pronto, sentiamo delle grida: “Hector! Hector!”. È Wagner, solitamente sempre molto tranquillo, ad urlare. Hector capisce subito che ci dev’essere qualcosa di eccezionale e si catapulta fuori dalla maloca, io lo seguo. “Otorongo!” grida Graciela, con gli occhi sbarrati. Hector si fionda verso il ponticello e lo attraversa, eccitato dall’eccitazione altrui quasi lo faccio di corsa pure io e cerco di raggiungere Dennis e Wagner che intravedo davanti a me, nel fitto del fogliame. Si dirigono verso il fiumiciattolo dove poco prima stavamo pescando. Li raggiungo e cerco di capire qualcosa di più: Graciela ha visto un otorongo affacciarsi dall’altro lato del fiumiciattolo mentre lei stava andando all’acqua. L’animale, come ha sentito le urla, è scappato in direzione opposta alla maloca. C’è grande eccitazione, avvistare un giaguaro è davvero difficile, specie così vicino ad un luogo abitato. Quando rientriamo Hector interroga Graciela che dice che era “alto così” e sta molto bassa con la mano. Hector ritiene che non potesse essere un cucciolo di giaguaro - che stanno sempre insieme alla madre che di solito è lei a uscire allo scoperto -, ma più probabilmente un ocelot.

 

Dopo pranzo ci si riposa un po’, mentre fuori il sole raggiunge lo zenit. Mi adagio su un’amaca e mi lascio cullare nel fresco buio della maloca. Mi applico con tale dovizia che ci scappa pure un pisolino: finalmente un’attività amazzonica verso la quale dimostro un certo tipo di predisposizione. I bimbi giocano col cucciolo di cane, destinato un giorno ad essere un cacciatore, che ora viene trattato non diversamente da un pelouche qualsiasi: preso in braccio di continuo, deve spesso mostrare la faccia feroce e ringhiare per sperare, invano, di essere lasciato in pace. A parte i cani, qualsiasi animale può diventare domestico, in Amazzonia. Ci sono pochi gatti, meno numerosi dei cani nonostante, a giudicare dai topi visti a Colonia Angamos, ci sarebbe pane per i loro denti, ma molti adottano dei bradipi. Si aggrappano come un bambino e sono molto tranquilli, cosa che però non impedisce, quando sono diventati adulti, che possano diventare un pasto. Lo stesso dicasi per i tapiri: Dennis mi racconta di uno che era cresciuto nel villaggio, ogni tanto spariva per qualche giorno ma faceva regolarmente ritorno alla casa natia. Anche lui però ha concluso la sua esistenza in modo poco glorioso. Faccio lavare un po’ di panni, le magliette sono contate e devono fare più di un giro mentre, scottato dall’assalto dei mosquititos della sera prima, ora sto con la camicia a maniche lunghe mentre i pantaloni lunghi, gli unici che ho, sono gli stessi che ho indosso dal volo di andata. Non ci penso neanche a togliermeli, nonostante ormai, come si dice dalle mie parti, potrebbero stare in piedi da soli. Dopo un po’ comincia a piovere.

 

Banane, machete e cuccioli: la vita nella maloca

Banane, machete e cuccioli: la vita nella maloca - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Nel pomeriggio Dennis mi mostra un altro dei metodi per ricavare cibo. Trova l’ennesima foglia di palma adatta allo scopo, la avvolge su sé stessa fino a farne una specie di fascia e se la fissa ai piedi. Con un'altra fibra si lega il machete al collo e, sfruttando la fascia che ha messo nei piedi, si arrampica velocemente sul tronco liscio e sottile di una palma. In un batter d’occhio è in cima alla pianta, col machete taglia qualcosa che cade fragorosamente a terra. Non sono noci di cocco, o se lo sono, sono noci di cocco molto piccole ma in grande numero. Mentre Dennis con delle foglie costruisce in pochi minuti una specie di paletta per granaglie, Graciela in poco di più costruisce un autentico zaino. Con la paletta raccoglie i frutti fatti cadere, li mette nello zaino e insieme torniamo alla maloca, dove i suddetti vengono messi sul fuoco e poi passati su un setaccio. È l’ennesimo chapo, stavolta di questi frutti della palma. Il sapore, difatti, non è molto diverso da quello del latte di cocco. Tornando verso la maloca, Dennis si era fermato presso un grosso albero e, col machete, aveva staccato un paio di pezzi di resina. Ora è buio, li accende con un fiammifero e questi diventano come delle candele, anzi in più diffondono un gradevole profumo che tiene lontani gli insetti. Purtroppo erano pezzi troppo piccoli - evidentemente Dunu li aveva raccolti di recente - e non durano più di un quarto d’ora.

 

Senza volerlo faccio una mossa di grande successo. Di solito porto con me un piccolo album con foto della mia famiglia, dei miei nipoti, perfino della mia adorata gatta e della mia città: è un piccolo ponticello gettato verso i popoli che visito. Serve per rompere il ghiaccio e a dimostrare che le foto sono uno strumento di conoscenza e scambio di informazioni, non solo un atto aggressivo. Stavolta, volendo stare super leggero per evitare i sovrapprezzi dei voli militari - mi avevano detto che oltre i 10 kg c’era una penale ma non mi è parso che ci fossero controlli del genere - non l’avevo portato con me. Prima di partire, come mio solito, avevo cercato materiale di approfondimento, in questo caso sulle popolazioni indigene della zona e dintorni. Non avendo avuto molto tempo per prepararmi, avevo stampato il materiale trovato, ripromettendomi di leggerlo in viaggio. Saranno un centinaio di pagine circa, corredate da diverse foto. Le tiro fuori, non ricordo per quale motivo, e tutti rimangono rapiti da quello che vedono. Non solo ci sono foto di alcuni Matsés, fra le quali riconoscono alcune facce, ma anche di Matis, Marubo, Korubo, Yagua, Bora, Tikuna, Matsiguenga, gli Shuar e gli Yaohuani dell’Ecuador, gli Yanomani del Venezuela, i coloratissimi indios che vivono sulle coste del fiume Xingu, in Brasile. Se le passano una ad una, stando ben attenti a non perdersene una, e le commentano in maniera vivace: sembra che non avrei potuto far loro un regalo più grande.

 

Dopo cena, ancora le candele, ancora Dunu che viene in mezzo a noi per soddisfare la nostra curiosità. Canë, dopo la morte di Manuel, rimase sola per un paio d’anni, fino a quando un fratello di Manuel la prese come moglie ma lei se ne andò. Non le piaceva stare in un villaggio troppo numeroso: prese il figlio e andò a vivere nella maloca della madre di Dunu che, alla morte di Manuel, era andata a vivere altrove. Il marito tornò per riprendersela ma ormai Canë si era messa con Dunu e questo generò dei conflitti fra Matsés: fu così che Dunu si spostò lungo il Rio Galvez e si insediò nel posto che venne chiamato Buen Perù (vecchio). Dunu e suo fratello costruirono la prima maloca, poi altre famiglie, una ventina circa, si unirono e in seguito si spostarono a Buen Perù Nuevo, per i motivi raccontati in precedenza, negli anni ’80. Chiedo a Dunu perché non vuole vivere nel villaggio con gli altri. Risponde che non gli piace il rumore, i ragazzi giocano col pallone, la chiesa suona la campana e si sente l’organo. I giovani, e pure i loro genitori, “sembrano  dei peruviani”, non Matsés, e anche se non lo dice si vede che trova l’abbandono dello stile di vita tradizionale disdicevole. La maloca l’ha costruita da solo, in un paio di mesi. Qua in Perù non esiste un ente che tutela i diritti dei popoli indigeni, come in Brasile è il FUNAI, e tanto meno li protegge se non vogliono essere contattati. Il contatto c’è stato senza filtri e le ultime generazioni sembrano quasi vergognarsi di essere indios, non si tatuano più, vogliono essere come gli altri peruviani, “moderni”. Una delle tradizioni che si sono perse dopo il contatto coi missionari è l’endocannibalismo. Anticamente i Matsés mangiavano i morti, ma solo i propri familiari, non quelli nemici. Ritenevano che lasciare il corpo di un proprio caro in decomposizione, vittima dei vermi, fosse una mancanza di rispetto e che se non lo avessero mangiato il diavolo li avrebbe uccisi. Così facendo invece ne mantenevano vivo lo spirito e acquisivano la forza del defunto. Lo piangevano la notte della sua morte al lume delle candele e il giorno seguente lo cucinavano e mangiavano tutti insieme nella maloca, senza scartare nulla, nemmeno la testa. Se il defunto era un uomo sposato, alla moglie era destinato il “boccone migliore”. Nemmeno le ossa andavano sprecate: venivano tritate e poi messe nel chapo.

 

Vista dalla maloca, quando fuori il sole picchia troppo

Vista dalla maloca, quando fuori il sole picchia troppo - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Hector porta naturalmente la discussione sulla caccia, il suo argomento preferito. I Matsés, benché almeno metà del loro sostentamento derivi dall’agricoltura, si considerano innanzitutto dei cacciatori (e pescatori, attività che accomunano alla caccia). Le prede sono le più disparate: le più pregiate sono la scimmia-ragno e il pecari dalle labbra bianche, ma anche scimmie lanose, pecari dal collare, paca (dei roditori dalle carni saporite), armadilli, cervi, testuggini, alligatori e bradipi. Tra gli uccelli i più ricercati sono il curassow e il tinamous. Durante la stagione secca cacciano le tartarughe di fiume e ne raccolgono le uova, quest’ultima attività così importante che dà il nome a quella stagione dell’anno. Non usano, a differenza di altri popoli della zona, le cerbottane: i loro strumenti sono arco e frecce, lance e più recentemente anche i fucili, spesso con l’aiuto di cani da loro addestrati. In realtà, a causa del tempo necessario per costruire le frecce e il costo delle munizioni, i Matsés cercano il più possibile di usare trappole o altri stratagemmi meno impegnativi. I tapiri vengono catturati con delle trappole, gli armadilli stanati versando dell’acqua nelle loro tane, i paca cacciati coi cani, i bradipi raggiunti sugli alberi grazie a delle corde e poi staccati. In tutta l’Amazzonia la caccia è considerata un’attività esclusivamente maschile, ma presso i Matsés anche le donne, e perfino i bambini, posso prendervi parte, benché con compiti meno importanti: aiutano a mandare le prede nella direzione voluta, raccolgono le frecce che mancano il bersaglio e possono anche uccidere le prede intrappolate con asce o lance. Ciò nonostante se la caccia non è fruttuosa non di rado la colpa viene data ad eccessivi rapporti sessuali e si ritiene che alcuni animali non sopportino l’odore delle donne. Anche per preparare le trappole per i tapiri è necessario essersi astenuti dal sesso per giorni, per questo di solito le dispongono gli anziani.

 

Dunu cacciava con le frecce, soprattutto le scimmie, mentre altri preferivano usare la lancia. Una volta, mentre inseguiva da terra una scimmia che si spostava sugli alberi, camminando col naso per aria cadde in una trappola che gli conficcò una lancia in una gamba, di cui porta ancora un’evidente cicatrice. Suo padre accorse trafelato pensando, dall’urlo che aveva sentito, che fosse stato attaccato da un otorongo e gli tolse la lancia dalla coscia. La caccia per i Matsés è qualcosa di più di un modo per rifocillarsi. È un’attività al limite del sacro, per esercitare la quale bisogna avere rispetto della foresta e uccidere solo quanto strettamente necessario. Chi caccia indiscriminatamente prima o poi rimarrà senza prede, solo chi lo fa con parsimonia ha la certezza che troverà sempre animali. Non a caso questa attività è spesso legata ai sogni e all’assunzione di sostanze magiche, come se per ucciderne i figli, bisognasse dapprima ottenere il permesso da Madre Natura. Solo dopo aver sottoposto i bambini a bagni “curativi” ottenuti da piante medicinali (neste), specifiche per ogni diverso animale, possono cacciare animali pregiati come i tapiri o le scimmie ragno. Ugualmente se nel corso delle loro escursioni uccidono dei grandi serpenti o dei giaguari, devono effettuare dei riti per proteggere i bambini dagli spiriti degli animali ammazzati.

 

continua...

 

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