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9° giorno
Stesso orario e stesso autista del giorno precedente, oggi è il turno del circuito grande, ovvero i monumenti riconducibili ad Angkor ma più lontani, un giro che si interseca con quello del percorso corto e che può essere interconnesso ad esso, ma che non da la possibilità di vedersi in modo non dico da archeologo professionista ma nemmeno esaustivo il tutto in una sola giornata. Tappa al Thida Speam Neak Rest per colazione poi prima sosta al Pre Rup nella zona denominata Mebon Orientale. Qui, una volta saliti sul tempio, la vista della foresta è ben più impressionante visto che nei dintorni non si scorgono né altre costruzione né persone. Il Mebon Orientale a sua volta oltre a denominare la zona è un tempio, non sorge più su di un’isola ma merita una sosta, molto più interessante il Ta Som, al termine del quale si erge un gigantesco albero che si è mangiato la porta orientale. Per raggiungere il Preah Neak Poan si percorre una lunga passerella sul largo bacino formato dal Siem Reap River, senza protezione ai lati. Peccato che il complesso non sia visitabile, si può vedere solo la parte settentrionale, nulla di più. Da qui la prossima meta è il Preah Khan, la perla del circuito grande, anche questo attorniato dalle acque del Baray, dove si può venir lasciati all’estremità orientale e recuperati a quella occidentale, dopo una escursione, tra edifici, gallerie, alberi di ogni tipo. La particolarità di questo grande tempio è di essere dedicato a più religioni, così le sue forme prendono più ispirazioni, ispirazioni che poi la natura ha terminato a suo piacimento. Nel rientro verso Siem Reap si ripassa da Angkor Thom, così ne approfittiamo per rivedere alcuni luoghi, tra cui la terrazza degli elefanti dal Kleag ed un ultimo assaggio dell’Angkor Wat. In città facciamo una veloce tappa al Wat Thmei dove si trova uno stupa contente alcuni teschi dei caduti sotto i colpi dei khmer rossi. Se ne parla pochissimo da queste parti di quel genocidio, certo la popolazione è molto giovane, ma pare comunque che la memoria collettiva abbia velocemente rimosso disastri e dolori perpetuati in maniera così efferata nemmeno 35 anni fa. Anche se già pomeriggio inoltrato facciamo sosta per uno spuntino, ci guardiamo un po’ la città che però è diventata un enorme centro commerciale all’aperto e ci riposiamo prima di cena dove sostiamo al Bhunta Rest. Notiamo che in giro per la città, oltre ai soliti motorini e le ormai poche biciclette stanno arrivando numerose le auto, praticamente tutte vecchie versioni di Toyota Camry affiancate da coloratissimi SUV di ogni tipo, il turismo sposta l’economia locale in maniera velocissima, poter aprire una piccola attività turistica cambia subito lo standard di vita, ed anche potersi permettere un motoremorque è fonte di reddito di dimensioni elevatissime rispetto a chi non può permetterselo.
Teschi delle vittime dei khmer rossi, Wat Thmei
10° giorno
Alle oramai solite 7 della mattina veniamo prelevati da una guida/autista con Toyota Camry per un’escursione fuori Angkor sempre però in siti riconducibili a quella antica civiltà. La guida, per nulla simpatica e più interessata ai suoi affari che a farci vedere quanto richiesto, ci fa far tappa per colazione a un “suo” ristorante, caro all’inverosimile, il Khmer Ancient Rest, di fronte ai nostri dinieghi i proprietari ci offrono banane gratuitamente, proprio di lato c’è la prima tappa giornaliera, il Banteay Samrè. Ma la perla di giornata è il Banteay Srei, piccolo complesso sito su di una isoletta con templi decorati in maniera sopraffina. Della sua origine vi è ancora discussione sul periodo di costruzione, ma senza perdersi in questi dettagli si può ammirare una vera chicca. Da qui raggiungiamo il punto di partenza per la salita al Kbal Speam, che dista 2 km dal parcheggio. La salita in alcuni punti non è agevolissima soprattutto per chi (e sono tanti) la affronta con ciabatte, all’arrivo più che godersi le lavorazioni incise sui massi e sul fondo del fiume (poca cosa dopo quanto visto in questi giorni) ci si gode lo scenario nella giungla. Vi si trova anche una potente cascata dover poter fare il bagno. Tutti questi luoghi sono visitabili col biglietto di Angkor, mentre il prossimo raggiungibile su strada non asfaltata necessita di un biglietto a parte. Quando arriviamo al Beng Mealea facciamo tappa per pranzo dove però ci prendono i bigletti per l’ingresso facendoci risparmiare tempo. Beng Mealea è cosa a parte da quanto visto in precedenza, qui la natura ha sconfitto l’uomo e più che una visita si tratta di una spedizione alla Indiana Jones. Lasciatevi avvicinare da qualche inserviente, vi guiderà lui tra i meandri del tempio, si passerà per vie impensabili, si scaleranno gallerie, tetti, ci si appoggerà ad alberi e con rami ci si sposta da un tetto all’altro, il tutto in un contesto splendido, quello che avrete visto in passato in alcuni film voi lo farete! Che il tutto sia permesso con così facilità mi pare anomalo, ma rinunciare una volta entrati in questo modo diventa praticamente impossibile, come ritornare sui propri passi se nessuno vi guida? È indubbiamente la visita più appagante di tutto il complesso di Angkor, per questo fuori pista lasciamo un dollaro a testa alla guida che ringrazia soddisfattissimo. Poi abbiamo anche il tempo di girarci il sito in maniera canonica anche se ad un certo punto invece di rientrare tramite passerelle lo facciamo alla cambogiana, ormai siamo di casa. Beng Mealea è ben poco cosa rispetto ad Angkor Wat, ma l’emozione che sa regalare è ancora più grande, imperdibile. Rientriamo su strade di terra rossa, un percorso che inizia a svelarci una Cambogia bucolica che nulla ha da spartire con Siem Reap, le vie si popolano di camion senza strutture, motorini carichi più che da noi le auto, scooter con intere famiglie trasportate, magari in 5 con un bambino di 8 anni alla guida, benzinai ufficiali sempre vuoti e chiunque che fuori da casa (o meglio baracca) vende bottiglie di benzina a prezzo uguale o leggermente minore, bambini che giocano ovunque senza però disturbare gli stranieri con qualsiasi tipo di richiesta, per quelle bastano e avanzano i cambogiani “urbani”, che trovano infiniti modi per sfruttare se non truffare gli stranieri, senza tener conto però che appena usciti dalla zona di Angkor chi viaggia in autonomia solitamente ha esperienza e sa come contrapporsi a questi falsi, ipocriti e inattendibili figuri. Ceniamo in un ristorante popolare lungo il fiume di fronte al mercato in maniera ottima (e questo è particolare da quelle parti) ed economica. Unico avvertimento, lasciate a casa la fretta, mi raccomando. Prima di lasciare Siem Reap sosta al bancomat della Canadia Bank in pieno centro, nessuna spesa di commissione sui prelievi e possibilità di ottenere cifre ingenti tali da coprire tanti giorni dove presumibilmente non si troveranno altri sportelli di questa banca.
La grandiosa piramide di Prasat Thom
11° giorno
L’autista ci chiede di partire alle 6 per il lontano e remoto Prasat Preah Vihear, acconsentiamo anche per via del fatto che passando per Anlong Veng vorremmo fare una deviazione di nemmeno 2 km presso la casa museo di Ta Mok, fratello n° 3 del periodo dei khmer rossi. La strada, a differenza di quanto indicato, è ora tutta asfaltata (a parte gli ultimi 5 km, che sono comunque buoni), non ci sono indicazioni e per noi capire dove stiamo passando di fatto impossibile, la guida/autista non si vuole fermare subito per colazione e finisce per saltare la deviazione, fermandosi solo una volta arrivati al posto di ascesa al Prasat Preah Vihear. Noi, potendoci orizzontare con tempistiche diverse rispetto a quanto possibile ora, dobbiamo sottostare ma evitiamo di fermarci al “suo” posto che offre solo caffè con ghiaccio e zuppa di noodles con carne. L’accesso al sito è gratuito, non così l’ascesa, ma alterati con l’autista teniamo botta e non prendiamo nessun passaggio per la vetta partendo a piedi col tipo imbestialito perché così gli faremo perdere ore che lui intendeva recuperare. Ma imprecando si rassegna, noi prendiamo la strada per il sito sul confine con la Thailandia, confine chiuso dal 2009 quando è terminata la guerra per questo lembo di terra, ma viste le forze in campo la situazione non deve essere così tranquilla. L’ascesa parte dolce poi comprendiamo perché con la Toyota non sarebbe fattibile, un pickup dell’esercito ci carica (e siam seduti tra pistole, mitragliette, viveri ecc…) e deve utilizzare le ridotte per salite. Il Prasat si trova su di un cucuzzolo ad oltre 700 m, luogo strategico per visionare chilometri e chilometri di territorio, da una parte e dall’altra. I soldati ci scaricano direttamente sullo scalone principale, ci forniscono la loro acqua personale e da qui iniziamo la visita che ha il suo culmine sullo strapiombo a sud, nel mezzo di una trincea ancora in essere e in ottime condizioni. Il luogo non può certo rivaleggiare con Angkor, ma la collocazione è mozzafiato, i militari mi prestano i loro binocoli per ammirare lo scenario in ogni direzione, quando indico la Thailandia mi confermano il nome con un esplicativo “pum pum”. Qui si è pronti a sparare a ogni evenienza, sul lato nord le trincee e le fortificazioni non possono nemmeno esser fotografate. Un altro aspetto positivo del luogo è la poca gente e la tranquillità, che par strano visto il dispiegamento di armi, ma tale appare, forte anche del fatto che la temperatura è perfetta, una piccola brezza salvifica ci accompagna in ogni pertugio visitabile. Le mogli dei soldati approntano piccole bancarelle dove pranzare, qui il ghiaccio viene portato su scooter stracarichi, poi prendiamo la via del ritorno ed i posti militari sono ovunque. Il primo pickup militare ci carica questa volta sul cassone, arriviamo al posto di ritrovo ben prima di quanto l’odioso autista si immagini e rimane meravigliato del nostro arrivo in questo modo. Partiamo subito con destinazione Srayong dove faremo tappa per la visita dell’indomani a Koh Ker. Lungo la nuova strada che raggiunge il Prasat asfaltata e drittissima sorgono numerose caserme, l’impresa più ardua per noi è mantenere sveglio l’autista che sfoggia la palpebra calante, gli argomenti di discussione sono pochi vista la reciproca idiosincrasia ma la nostra sicurezza deve andare ben oltre a questo. Ci scarica al villaggio senza interessarsi a nulla di più dell’aver prelevato gli zaini, troviamo posto nell’unica G.H. del villaggio, grande costruzione tutta di legno su 2 piani. Al secondo offre le uniche 2 camere dotate di bagno, che poi significa una tazza e un tubo da usare come doccia (fredda) e lavandino, rimaniamo una notte sola, alternative non se ne vedono ed accettiamo subito. La padrona però non parla una parola che non sia cambogiano, provando a chiedere qualche info per l’escursione del giorno seguente a Koh Ker e per andarcene da qui verso Tbeng Meanchey l’unica cosa che riesce a fare è telefonare ad un suo conoscente che sta nella capitale con cui parlare inglese. Ovviamente questi nulla sa rispondere a noi, ma anche parlando con la signora non riesce a strapparle indicazioni utili. Proviamo allora nel villaggio, ma stessa sorte, poi fortunatamente giunge una jeep della CMAC (una ONG che sta sminando il terreno limitrofo) e il ragazzo parla un fluentissimo inglese così da trovarci 2 autisti di moto per il giorno seguente e da organizzarci il trasferimento nel pomeriggio grazie a un servizio privato che carica quelli prenotati telefonicamente. Ovviamente senza questa persona il tutto sarebbe stato impossibile, abbiamo avuto buona sorte. La proprietaria della G.H. ci indirizza in un posto 100 m a destra per la cena, dire che si tratti di un ristorante è roba grossa ma possiamo cenare, anche se il tutto avviene con la compiacenza di un signore del posto che nel tavolo accanto cena con la famiglia e che parla un po’ di inglese da tradurre al proprietario. In ogni caso le basi di lingua khmer apprese sulla Lonely Planet sarebbero comunque state sufficienti per la sopravvivenza. Cena normale, condita però da un caffè favoloso.
Beng Mealea, dove la natura prevale sull'opera dell'Uomo
12° giorno
Colazione al mercato, unico posto dove poterla conseguire, anche se con estrema difficoltà nell’intendersi, poi caricati su motorini raggiungiamo Koh Ker che prima ancora di Angkor fu capitale dell’impero. Le rovine del sito sono in un raggio molto largo, alcune sono in pessime condizioni, quindi non val la pena rischiar la vita per raggiungerle, buona cosa prestare attenzione ai cartelli che segnalano lo sminamento, dove avvenuto... L’attrattiva principale del luogo. ora che raggiungerlo non è più impresa improba. è la grande piramide denominata Prasat Thom (o Prasat Kompeng), decisamente straniante come costruzione in questo angolo di mondo, senza turisti al seguito e custodi nei dintorni si potrebbe pensare di trovarsi in Yucatan. Purtroppo non è possibile salire in cima. Altri luoghi interessanti si trovano nei dintorni, non sono di facile reperibilità senza una guida, tra tutti svettano alcuni linga di dimensioni cospicue, quasi certamente i più grandi della Cambogia. La visita può durare da 2 ore anche all’intera giornata, dipende dal vostro interesse, ovvio che dopo giorni e giorni di templi e rovine angkoriane si presti attenzione alle realizzazioni che maggiormente colpiscono l’occhio per poi rientrare verso il villaggio a riprendere gli zaini alla G.H. dove nell’attesa del mezzo per andare a Tbeng Meanchey la proprietaria ci offre banane a non finire, che qui nessuno fa mai pagare. L’attesa è lunga, ci avevano avvertito di farci trovare pronti per le 14:30, in realtà la Toyota Camry sulla quale saliremo arriverà ben dopo le 16, ma l’attesa è all’ombra seduti e quindi a poco serve stare in ansia. In auto sommersi tra svariati bagagli siamo in 8, 4 davanti e 4 dietro, nessuno pare aver problemi, ora la strada è tutta asfaltata ed in 45’ arriviamo, mentre poco tempo prima occorreva più del doppio del tempo. In auto un passeggero parla inglese così tramite lui riusciamo ad accordarci col conducente per il lungo trasferimento del giorno seguente, le guide lo riportano come un’avventura e non un viaggio, ma qualche dubbio sorge visto che ci viene sparata una cifra alta, la abbassiamo nemmeno troppo e senza indugio l’autista accetta gli 80 $. Facciamo tappa a una G.H., proviamo a visitare la cittadina che tutti chiamano Preah Viehar (da non confondere col sito al confine thailandese), importante apostrofarla con questo nome perché evidentemente nessuno al villaggio precedente ci aveva dato info sul trasferimento dato che il nome non era a loro noto. La città non ha proprio nulla da offrire, il fiume è fuori città e per raggiungerlo occorre inoltrarsi su sentieri in pessimo stato così desistiamo dando un’occhiata al mercato (solo roba di sussistenza locale), proviamo a verificare se in effetti non esistano collegamenti pubblici per tagliare verso est (e così è) e prendiamo qualche info in un internet point prima di cenare a fianco della G.H. in uno dei pochi luoghi dove una cameriera parla qualche parola di inglese, in altri al solo chiedere se ci potevamo sedere, probabilmente sentendo un lessico sconosciuto ci avevano detto di no d’impatto, e nessun ristorante esibiva un menù. A Tbeng Meanchey, alle 20 a parte i cani, nessuno più gira per la città, luci ben poche e così non resta altro da fare che rientrare nella poco ospitale camera della G.H. in attesa di tempi migliori.
continua...
BLOGGER
Luca