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1° giorno
Da Bologna con un Freccia Rossa raggiungo Milano Centrale, da lì le navette partono ogni 5’ per l’aeroporto di Malpensa. La fila al check-in del volo Turkish Airline per Istanbul è veloce e anche i controlli portan via poco tempo, ma quando siam pronti a partire l’aereo non si muove. Dopo 30’ veniamo informati che un passeggero ha imbarcato con un solo porto d’armi svariate armi, quindi viene fatto scendere e in un secondo tempo viene prelevato anche il suo bagaglio a mano, operazione che impiega circa 90’, mettendoci a rischio per la coincidenza futura. In volo non recuperiamo tempo, ma come da tradizione della compagnia (votata la migliore in Europa) il servizio è ottimo. All’aeroporto Ataturk di Istanbul (quello nella parte europea, non quello nuovissimo nella parte asiatica) velocemente veniamo indirizzati alle partenze internazionali, ci garantiscono che il volo per Johannesburg è in orario ma potremo prenderlo, sperando che altrettanto accada anche ai bagagli.
Una strada a Zeerust
2° giorno
Appena passata mezzanotte partiamo per il Sud Africa, ci viene subito offerto uno snack, poi la cena e finalmente le luci si abbassano, non prima di aver ricevuto il comfort kit ormai sconosciuto tra le compagnie europee (almeno in classe economica…). Ovviamente ogni poltrona è dotata di schermo personale e ingresso usb, chi non vuol provare a dormire può gingillarsi a piacimento. Poco dopo colazione atterriamo al O.R. Tambo International Airport, di fatto a metà strada tra Johannesburg e Pretoria, dove ci dirigiamo una volta espletate le operazioni di dogana (velocissime), ritirati gli zaini arrivati puntuali (un plauso agli operatori dell’aeroporto Ataturk) e quelle relative a prelievi e cambi moneta. A casa del corrispondente locale prendiamo possesso dei mezzi per affrontare il deserto e di tutto il vettovagliamento (controllare tutto nei minimi particolari, visto che una volta nelle sabbie non si potrà più porre rimedio a qualcosa che non vada) necessario, facendo la prima tappa presso un enorme supermercato dove recuperare cibo a sufficienza per la prima parte del Kalahari meglio chiamato Kgalagadi Transfrontier Park che si estende sul confine tra Botswana e Sud Africa, nella zona sudovest del primo di questi. Stivato il tutto con una logica ben precisa, dividendolo a seconda degli usi (prodotti per colazione in un luogo, spuntini di metà giornata in un altro, cene in un altro ancora, sembrerà una banalità ma alla lunga la certosina operazione pagherà) facciamo rifornimento di benzina il minimo necessario per attraversare il confine. Al supermarket si può anche pranzare, così per accelerare i tempi prendiamo qualcosa nel posto, con poco ci si riempie la pancia con buone specialità, tralasciando il biltong (carne secca essiccata, qui ne vanno pazzi, si trova di qualsiasi animale pensabile) per il quale occorre investire qualche rand in più e farne pian piano abitudine. Partiamo su larghe autostrade in direzione nord con destinazione Zeerust dove facciamo tappa al She Henne’s e dove ceniamo nel ristorate dell’hotel. Lungo il percorso si vede un panorama di colline verdeggianti, ogni tanto qualche insediamento minerario al momento in situazione di lotta tra lavoratori in condizioni disagiate e governo locale, qualche baraccopoli, difficile dire come l’integrazione proceda, anche se solitamente i neri lavorano e i bianchi gestiscono, praticamente mai li si vede assieme. La temperatura, gradevolissima di giorno, una volta sparito il sole precipita, e buona cosa che le camere siano dotate di riscaldamento. Cena a base di carne, qui nessuno si fa mancare un'enorme bistecca, diciamo che la scelta è con o senza osso, per i vegetariani non è posto, direi qualche insalata indistinguibile oppure una possibile scelta di patate. Carne va detto, ottima. Percorsi 240 km, tutti su asfalto.
Un display pieno di biltong
3° giorno
Colazione abbondante in hotel e poi si parte per un lungo trasferimento che ci porterà alle porte del Kgalagadi, già nel bush. Arriviamo velocemente al confine del Sud Africa a Pioneer Gate, veloci le operazioni di frontiera, poche centinaia di metri dopo a Lobatse si entra in Botswana, c’è da registrare il classico modulo riportante i vari dati ma non serve un visto e non si paga nulla. Vi si trova un ufficio cambio ma non un bancomat, meglio cambiare a Kanye, primo paese di una certa consistenza che si incontra, dove facciamo rifornimento riempiendo anche una tanica aggiuntiva da 150 litri. Strade asfaltate, procediamo spediti verso Sekoma (dopo 270 km) dove prendiamo un break all’uscita della città già nel bush iniziando ad affettare i primi insaccati portati dall’Italia. Si riparte velocemente perché la metà finale della giornata, il Berry Bush, poco fuori Tshabong, dista dalla partenza 540 km, gli ultimi già su pista sabbiosa. Il posto lo avevamo prenotato dall’Italia, nel mezzo del nulla sorge questa struttura che offre camere di un certo livello con bagni dotati di acqua calda e altre stanze più simili a baracche con bagni in comune senza acqua calda, ma scroccare una doccia calda non è un problema, e poi essendo l’ultima per qualche giorno, fa piacere. Primo vero e proprio tramonto africano, da non mancare, anche se poi diventerà un'operazione di routine. La proprietaria ci organizza una grande cena dove la portata principale è costituita da spezzatino di impala, tenero e gustoso, ma copre la tavola di ogni possibile leccornia, quindi chi non riesce a mangiare un animale che magari poco prima si è fotografato può buttarsi su altro. Poi la proprietaria e il marito iniziano a raccontarci aneddoti vari sul posto, sulle genti, sugli animali, loro sono afrikaner, quindi dall’alto della loro posizione si ritengono i veri “costruttori” dell’Africa, nutrono disprezzo per gli abitanti locali e un odio profondo verso inglesi e stranieri residenti in genere. Sentimenti che vengono ripetuti un po’ da tutti gli afrikaner incontrati, a parte questo aspetto sono però ottimi padroni di casa, visto che siamo in periodo di Olimpiadi tifano per qualsiasi atleta africano/africana che vedono in televisione, di Caster Semenya parlano quasi con le lacrime agli occhi per tutto quanto ha dovuto subire. Dichiarazioni in antitesi in pochi minuti, la buona fede pare veritiera.
Gnu in fuga nel Kgalagadi Transfrontier Park
4° giorno
Abbondantissima colazione presso la guest house dove iniziamo a familiarizzare coi buceri, che a breve nel deserto saranno compagni invadenti di colazione. Prima tappa a Thsabong dove far scorta di benzina e da qui su pista sabbiosa andiamo all’entrata orientale del Kgalagadi Transfrontier Park entrando nel Mabuasehube Section (qui paghiamo 5 notti, ovvero quelle in Botswana, comprese anche quelle nel successivo Central Kalahari Game Reserve e 3 ingressi). Presso l’ingresso ci sono indicazioni utili su cosa, come e quando vedere gli animali, occorre registrarsi e confermare le piazzole di sosta per le notti, a parte quella a Nossob che essendo in Sud Africa va prenotata e pagata a parte. Iniziamo il giro dei pan (enormi fondi di laghi nelle stagioni delle piogge dove stanziano gli animali, ora piane desertiche) in direzione nord avendo come traguardo il Lesholoago Camp. La marcia è forzatamente lenta, sempre sabbia o terreno accidentato, il deserto assomiglia a una savana, non ci sono dune ma sterpaglie, animali prevalentemente erbivori, iniziando dal più comune orice, per passare all’impressionante kudu, agli eland, agli gnu, a ogni possibile e inimmaginabile gazzella, dove svetta primaria quella simbolo del Sud Africa, lo springbok. I pan ora sono secchi, in larga parte disabitati e incutono un senso di desertico vuoto, anche se la temperatura non arriva a 25°. Dopo aver pranzato al sacco usando la ribaltina del camion come tavolo da taglio per affettati e formaggi, riprendiamo il giro di avvistamento animali in direzione del campo notturno, arrivando prima del calar del sole per piantare le tende. Il campo a noi riservato altro non è che uno spiazzo con una capanna definita da tronchi ma non coperta dove impiantare tutto attorno le tende. Qui c’è anche un luogo designato e delimitato per i bisogni con buca nel terreno, niente di più, e noteremo che spesso questo è anche di più della media. Piantate le tende iniziamo a predisporci per la cena, notando subito che la temperatura precipita in tutta fretta. Pasta come cibo principale, terminato di lavare le stoviglie cercando di utilizzare meno acqua possibile, è buona cosa scaldare acqua per un caffè o un the in vista della fredda notte. Fondamentale non lasciare la minima traccia di cibo per non richiamare i predatori al campo di notte, gli animali sono tutti intorno a noi perché quando con le torce illuminiamo le sterpaglie che ci circondano notiamo gli occhi di svariati animali, immagino quelli che di giorno mai scorgiamo. Al primo ruggito di leone, che invece è quello di una iena, tutti in tenda, visto che ci è stato garantito che mai questi animali vi entreranno. La notte è fredda, temperatura minima -2°, ma nessun particolare problema dato che eravamo coscienti di questo fatto. Percorsi 190 km, quasi tutti su pista.
Un dispettoso bucero
5° giorno
Sveglia all’alba, fa ancora freddo, e mentre scaldiamo l’acqua per la colazione notiamo impronte di animali attorno alle tende, iene e sciacalli proprio adiacenti, leoni invece a 10 metri, diciamo che abbiamo le nostre guardie del corpo a vigilarci per la notte. I buceri sono terribili, si buttano su biscotti e pane senza paura, tanto da sbattere le loro ali contro le facce, non arretrano mai, si viene infastiditi, bisognerà farsene una ragione per le mattine a seguire. Smontato il campo partiamo in direzione sud circumnavigando vari pan, il Mabuasehube, il Monamadi ed il Bosabogolo dove facciamo tappa per il solito pranzo al sacco, affettati, formaggi e frutta. Per guadagnare tempo, a pranzo non monteremo mai la cucina da campo, avevamo stabilito fin da subito questo precetto. Branchi di animali iniziano a diventare presenza costante delle nostre giornate, ma come solito sono gli erbivori a presenziare, i predatori di giorno oziano e raramente faremo la loro visione. Iniziamo a prendere la destinazione ovest lungo un sentiero non proprio facile, dune basse ma poco compatte, occorre sgonfiare oltremodo le gomme, il rischio è quello di sbattere su di una roccia che comprime il pneumatico e questo finisce per uscire dal cerchione, rimanendo così bloccati. Temperatura sempre sui 25° massimo, giusto da rimanere in magliettina senza sudare. Come già segnalato impossibile camminare in autonomia, ci alterniamo sui due mezzi a disposizione, un grosso camion col tetto estendibile, ottimo per rimirare il paesaggio e gli animali, ma scomodissimo e una jeep che è il perfetto contrario. Arriviamo al camp della nottata, il Motopi1 ma lo troviamo già occupato, così ci spostiamo al limitrofo Motopi2, di fatto questi non sono altro che un albero grande con uno spiazzo attorno al quale far campo. Non c’è nulla di più, né un capanno né un buca per i bisogni, da farsi nel mezzo del bush, sorridendo agli sciacalli sempre nei dintorni. Se l’orice e lo springbok sono gli animali di gran lunga più visibili, il grande kudu diventa il più fotografato della giornata. Facile distinguere il maschio dalla femmina, il primo esibisce corna di oltre un metro arrotolate che fanno una notevole impressione, questa netta differenza non la si riscontra con l’orice visto che la sua coppia di corna di un metro è tipica per entrambi i sessi. Solita cena a base di pasta, caffè e cioccolate non mancano mai, buona compagnia verso la nottata, non ci è possibile riscaldarci attorno al fuoco perché ci è fatto divieto di accenderlo utilizzando la legna del deserto. Notte fredda, ma temperatura minima a 0°, percorsi 110 km, tutti di pista, decisamente tenuta male.
continua...
BLOGGER
Luca